Sui diritti delle donne: intervista a Maria Antonietta Serci

Di Camilla Tettoni

Un’associazione d’élite. L’Alleanza Femminile Italiana (1944-1950) (Rubbettino, 2020) è l’ultimo saggio pubblicato dall’archivista e studiosa di Storia del movimento politico delle donne e del sindacalismo femminile Maria Antonietta Serci. Leggendolo si è immersi in un’atmosfera di rinascita, il dopoguerra italiano. A un’epoca cupa e chiusa, com’era stata quella della dittatura fascista, fa da contraltare un periodo di lotta per il riconoscimento di una piena democrazia, che non escluda le donne. Il diritto di voto, l’abolizione della prostituzione di Stato, il riconoscimento dei pari diritti civili, lavorativi e sessuali: finché non sfogliamo le pagine di questo saggio non siamo pienamente consapevoli delle difficoltà incontrate dalle donne dell’AFI e delle altre associazioni femminili. Con uno stile scorrevole Serci racconta le personalità di tante donne di quei tempi: attiviste, mogli e madri, nobili e borghesi. In ognuna di loro vi era la volontà di facilitare l’ascesa politica delle donne; pretendevano di ottenere, finalmente, il diritto di avere voce in capitolo. Caratteristica fondamentale di tale saggio è inoltre l’utilizzo di fonti inedite, che regalano al lettore un punto di vista privilegiato sul primo lustro del secondo dopoguerra italiano. Lascio la parola all’autrice, alla quale ho avuto il grande piacere di rivolgere qualche domanda.

Il suo saggio si apre con una descrizione dell’incredulità provata dai romani in seguito alla Liberazione di Roma. Non si riesce a credere che la guerra sia finita, che il fascismo sia giunto al termine. In questa atmosfera nasce, o dovrei meglio dire rinasce, l’Alleanza Femminile Italiana. Ci vuole dire due parole al riguardo?

L’AFI (Alleanza Femminile Italiana) nacque nel 1910 come la sezione italiana dell’Alleanza Internazionale per il Suffragio. L’AFI era la punta più avanzata dell’emancipazione liberale: si dibatteva per il divorzio, per la creazione di una scuola laica, per il diritto di voto. Nel 1925, in seguito alle leggi restrittive fasciste, diverse associazioni vennero sciolte e molte donne si ritirarono a vita privata. Nel settembre del 1944 Teresita Sandesky e altre amiche ricostituirono l’associazione basandosi su tre credi: volevano che l’Alleanza fosse apartitica, aconfessionale, apostatica. Poche donne, aristocratiche e borghesi, con l’obiettivo di creare un rapporto trasversale con altre associazioni, come l’Unione Donne Italiane (UDI) e il Centro Italiano Femminile (CIF).

Il 1944 è l’anno principe del suo racconto. Da quest’anno hanno inizio varie lotte per i diritti civili.

Si, esattamente. Innanzitutto, va ricordata la lotta per il voto alle donne: nell’Italia liberale non aveva avuto successo perché legato alle campagne per il divorzio e l’abolizionismo. Nel dopoguerra Teresita Sandesky decise di non parlare apertamente del divorzio; appena il diritto di voto venne inserito nella Costituzione si dedicò a questa campagna. Per quanto riguarda l’abolizionismo della prostituzione di Stato, tale richiesta non era solo italiana: si trattava di un vero e proprio cavallo di battaglia del movimento emancipazionista internazionale. Si richiedeva la chiusura delle case chiuse e l’abolizione della doppia morale sessuale. Sin dal ’45 l’AFI iniziò a lavorare per cercare di presentare un progetto per l’abolizione della prostituzione, consultando al tempo stesso le leggi europee e americane. Maria Antonietta De Silvestri, responsabile della sezione milanese, cominciò a lavorare a tale proposta di legge con un gruppo di avvocate; dopodiché si affidarono a Lina Merlin, che decise di presentare la proposta in Senato, affrontando l’ostilità del suo partito, il Partito Socialista. La proposta venne infine approvata, ma venne al tempo stesso privata dei suoi meccanismi rivoluzionari, in quanto fu interpretata come una riforma sociosanitaria. Le carte hanno rivelato l’esistenza di un patto segreto tra l’Alleanza femminile e la senatrice Merlin: l’opinione pubblica non doveva sapere che dietro al progetto c’era l’AFI, in quanto era un’associazione con posizioni troppe avanzate per quei tempi e avrebbe creato ulteriori problemi ai rapporti tra Merlin e il suo partito. L’Alleanza Femminile Italiana creò inoltre una Commissione per la Pace, presieduta da Anna Mazziotti di Celso dal 1944 fino ai primi anni ’60. La pace è un altro tema centrale della piattaforma politica dell’Alleanza e Anna Mazziotti riuscì a declinare il suo pacifismo radicale in un periodo storico molto difficile, quello della Guerra fredda. Anna Mazziotti e le altre militanti pacifiste laiche, come Anna Garofalo e Maria Remiddi, solo per fare alcuni nomi, vinsero la sfida di perseguire il proprio ideale difendendo la loro autonomia, rimanendo ancorate ai valori delle democrazie occidentali senza interrompere il dialogo con le associazioni femminili socialcomuniste. Voglio ricordare anche un altro punto importante del loro programma, ossia la richiesta di una pensione per le casalinghe, riconoscendo così il duro lavoro di molte donne nelle famiglie, spesso sostitutivo, come accade ancora oggi, di un sistema moderno e pubblico di servizi sociali.

Nel saggio compaiono molteplici esempi di donne; tra tutte spiccano Teresita Sandesky Scelba e Anna Mazziotti di Celso (le cui immagini compaiono sulla copertina). Ci parli un po’ di loro e delle fonti che ha utilizzato per regalarci un’immagine così nitida della presidente dell’AFI e della presidente della Commissione di Pace.

Teresita e Anna, ritratte in copertina, ci danno il polso del passaggio di timone fra il primo femminismo di età liberale e l’emancipazionismo del secondo dopoguerra. Queste due donne dai cappelli fiorati, dagli abiti di primo Novecento, sono il punto di raccordo tra l’elitario femminismo liberale e l’associazionismo femminile di massa, composto da donne che si erano avvicinate alla militanza durante l’antifascismo e la Resistenza. La fonte principale per la ricerca è stato l’Archivio dell’Alleanza femminile, conservato con cura da Teresita Sandesky, molto attenta nel protocollare le carte. La problematica maggiore è data dalla mancanza di archivi di singole personalità e di memorie. Rappresenta un’eccezione la testimonianza ricevuta dalla nipote di Anna Mazziotti, Anna Maria, figlia del professor Manlio Mazziotti di Celso, la quale mi ha permesso di ricostruire una, seppur minima, nota biografica della dirigente.

Al di là di queste due figure, all’interno del suo saggio compaiono varie personalità. Potremmo parlare di una pluralità di voci interne.

È vero, vi è la rappresentazione di una varietà di voci, una diversa dall’altra: ognuna declina la sua definizione di femminismo, di pacifismo, di europeismo. Le associazioni laiche femminili e miste portarono avanti un lavoro straordinario per la società del dopoguerra, lottarono per la diffusione della scolarizzazione e per l’istituzione di un servizio pubblico e laico di assistenza sociale. Le associazioni femminili lavorarono per declinare un concetto di cittadinanza consapevole, non vissuta in maniera passiva ma attiva nella costruzione della nuova Italia Repubblicana, frutto della consapevolezza di ogni individuo. L’individuo è protagonista del processo collettivo, la società nuova deve scaturire da un processo di consapevolezza interiore e civile. Tutto ciò è essenziale, in quanto la formazione di un cittadino e di una cittadina consapevole è un antidoto alla dittatura.

I temi proposti dalle associazioni femminili di cui tratta il suo saggio sono alquanto attuali. È interessante leggere come alle giuste rivendicazioni di queste donne si oppongano parlamentari, giornalisti, scienziati (alcuni asserivano che le donne avessero 100 grammi in meno nel cervello). Le epistole da lei riportate, così come il racconto delle politiche svolte a livello nazionale e internazionale, permettono di comprendere il ruolo che ebbero Sandesky, Mazziotti, Lollini e molte altre nel far avere a noi – giovani di oggi – i diritti che abbiamo fin dalla nascita. Molte ragazze e donne dei nostri giorni rifiutano l’etichetta di femminista. Perché pensa che sia avvenuto un processo del genere?

Secondo me perché non c’è stato un passaggio di memoria storica. Negli anni ’70, quando c’è stata l’irruzione del secondo femminismo italiano, è avvenuta una rimozione del femminismo precedente. È ritornato lo stigma della parola femminista, così come era accaduto nella prima generazione: le ex partigiane rifiutavano il termine femminista perché era considerato appartenente ad un movimento borghese. Gioca a sfavore, inoltre, la rappresentazione negativa che della donna politica e della femminista è stata data sulla stampa e sui mezzi di comunicazione di massa – tema al centro di una ricerca promossa dall’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, con un gruppo di lavoro del quale faccio parte, coordinato dalla Professoressa Patrizia Gabrielli, i cui risultati si trovano nel sito http://www.eletteedeletti.it. Le giovani spesso non hanno memoria delle lotte precedenti; si è verificata, ancora una volta, un’interruzione nella trasmissione della memoria storica. Si ignora che i diritti di cui godiamo sono stati conquistati innanzitutto da ventuno costituenti, le Madri della Repubblica, che lavorarono per farli inserire nella Costituzione, approvata nel 1948. E poi dal ceto politico femminile cattolico, comunista, socialista, repubblicano che dal 1946 in avanti si sono battute per l’eliminazione di leggi discriminatorie e costumi arretrati. Di questo c’è pochissima memoria, ma è necessario ricordare e non dimenticare tutti gli sforzi fatti affinché noi donne potessimo essere libere di fare scelte di vita consone ai nostri desideri. D’altronde, i diritti acquisiti non sono per sempre, vanno riaffermati e riconquistati giorno per giorno.

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