Di Camilla Tettoni
"God made the country, man made the town."
Il topos della contrapposizione tra l’ambiente campestre e la città ha radici arcaiche. Già nell’antica Grecia, infatti, troviamo esempi di letteratura bucolica, pastorale, volta ad enfatizzare l’idillio della vita in campagna. Il poeta Teocrito ne Le Talisie simboleggia la propria investitura poetica a poeta bucolico; si definisce “euretés”, il creatore di un nuovo genere, nonostante Esiodo stesso avesse ricevuto, all’interno della Teogonia (antecedente di alcuni secoli) la vocazione poetica mentre si trovava al pascolo. Non dobbiamo dimenticare, però, la dimensione urbana cui Teocrito si rivolge nei suoi scritti: i suoi lettori sono i cittadini dell’Alessandria dei Tolomei, caratterizzata in quegli anni da un fenomeno di crescente urbanizzazione. I prati fioriti, i campi soleggiati, l’idillio della natura teocritea trascinavano i lettori in una dimensione lontana, onirica. Nel mondo latino troviamo Virgilio con le sue Bucoliche: come in Teocrito, i pastori del poeta sono più interessati alla poesia che alle greggi; inoltre, i protagonisti dei poemetti virgiliani diventano arcadici, evocano nei loro canti un ritorno alla semplicità della vita agreste. Si viene così a creare l’idea di un “locus amoenus”, di un luogo fuori dal tempo e dallo spazio, in cui i pastori divengono i portavoci di un’età dell’oro. Secoli dopo, Giovanni Pascoli tratterà della natura nella sua raccolta Myricae, il cui nome deriva proprio da un verso virgiliano. Le poesie di Pascoli descrivono la natura nelle varie stagioni andando a ricercare l’essenza degli elementi, così da arrivare ad una mistica del reale. L’industrializzazione, avviatasi proprio negli anni in cui scriveva Pascoli, ha portato all’inevitabile trasferimento in città di molte famiglie in cerca di un lavoro. I luoghi urbani ottocenteschi, caratterizzati dal fumo delle ceneri industriali, sono stati rappresentati all’interno di innumerevoli lavori letterari: si pensi a Hard Times, di Charles Dickens. La campagna continua ad essere vista come l’antitesi per eccellenza dell’artificio, la scappatoia dalla turbolenza cittadina, un pacifico rifugio dalla caoticità urbana. Emblema di quanto affermato è la celebre favola del topo di campagna e del topo di città, del latino Orazio. Recentemente, grazie ad un circolo di lettura di cui faccio parte, mi è capitato di leggere un saggio di Georg Simmel, La metropoli e la vita dello spirito. Questo libro, breve ma caparbiamente intenso nei temi trattati, riesce ad analizzare saggiamente le differenze tra la vita bucolica e l’esistenza metropolitana. Come nota Simmel, alla velocità della città si oppone la lentezza della campagna, agli affetti di un piccolo paese si oppone il “carattere intellettualistico-calcolatore” di un cittadino. Gli abitanti delle metropoli hanno più libertà nel portare avanti le proprie scelte, nell’essere indifferenti al giudizio altrui. I cittadini, in poche parole, sono cosmopoliti. Tuttavia, scrive Simmel, l’economia capitalistica crea un desiderio di crescita materiale, non necessariamente accompagnata da un’adeguata preparazione culturale. L’attualità di questo saggio, pubblicato nel 1903, mi ha colpita. Appare evidente come, al vantaggio del vivere in campagna, di vivere nel verde circondati da una rete di affetti, si opponga la libertà della città e il gran numero di occasioni che questa offre, siano esse offerte culturali, di svago o lavorative.
Personalmente, vivo in campagna ma sono cresciuta in città, dove ho vissuto le mie esperienze, formative e personali, tranne in rarissimi casi. Lo scorso anno, però, non ho potuto fare a meno di apprezzare la quotidianità in campagna: la natura ha reso meno pressante l’impossibilità di uscire di casa per via della quarantena. Ad oggi, se dovessi dirvi dove preferirei vivere, risponderei senza esitazione: “In città!”. E voi, cari lettori, cosa pensate di questa diatriba? Preferireste abitare in campagna o in città?
