Di Meriem Behiri
Oggi mi trasferisco. Oggi inizio una nuova vita, la mia vera vita, a quanto pare, ma si sa, quando ci si trasferisce per iniziare una nuova vita vengono a galla sempre tante cose vecchie. Mettendo in ordine la nuova libreria, infatti, mi imbatto in una scatola rossa a pois bianchi. Ricordo chi me l’aveva regalata e chi l’aveva scelta, stranamente una persona che ora mi detesta. Conteneva dei DVDs di How I Met Your Mother al tempo. Mi piace quella scatola. La apro ed esplode una bomba di memorie: vecchi scontrini di ristoranti di cui avevo dimenticato il nome, biglietti dieci corse della TPER, locandine di eventi a cui non ho mai partecipato, i vecchi biglietti da visita dei miei locali preferiti e svariati post-it. Mi soffermo su questi, visto che i ricordi legati ai ristoranti fanno troppo male e quelli legati alle corse in autobus mi hanno provocato una lacrima involontaria, non so se per la disperazione di arrivare in ritardo o per la malsana nostalgia di Piazza dell’Unità di prima mattina. I post-it sembrano innocui, al massimo dovrebbe esserci qualche appunto di un esame. Inizio a sfogliarli: “compra il latte di Cocco!!!!!”, “cocco” sottolineato e con la “c” maiuscola, per motivi che vorrei aver rimosso e anche perché mi piaceva la parola “cocco”; l’indirizzo di una foto-copisteria, ovviamente in via Belle Arti; “seminario alle 14”; “grazie della serata”, e riconosco la scrittura, non mia, che aveva prodotto questo appunto, riferendosi a un mio imbarazzante racconto di una serata galante e di cui avevamo abbondantemente riso entrambe. Forse dovrei chiamarli entrambi, sia chi aveva scritto il biglietto che chi aveva proferito quella frase, anche se mi chiedo come ci si comporti in questi casi: “Ehi, ciao! Ho trovato un post-it che riporta una delle tue peggiori uscite nel settore appuntamenti. Come sta la famiglia? Hai ringraziato molte persone dall’ultima volta?”. No, non è il caso.
Proseguo nel mio scavo archeologico. Trovo un banalissimo, elegantissimo ma sempre attuale: “Puzzi”. Ce n’è più di uno. La grafia è decisamente inconfondibile per me. Poi eccone un altro, che dice: “Scusa, facciamo pace?”. Sì, ho decisamente riconosciuto la grafia, il colore della penna e quasi riesco a sentire l’odore della stanza in cui quel pezzo di storia era stato prodotto, ma soprattutto rivedo la mano incerta muoversi sul foglio e il mezzo sorriso colpevole e leggermente pentito di chi lo ha prodotto. Ora ho davanti il suo volto, quasi infantile. Ci sentivamo adulti invincibili, invece eravamo poco più che ragazzini. Chissà se ora ha i tratti di un uomo, i modi più sicuri e se quel sorriso è diventato più spavaldo. Chissà se scrive ancora post-it. Potrei chiederglielo. Lui sì, potrei chiamarlo, e certamente parleremmo, ma parleremmo davvero? Il problema è, Marco, che se noi ci incontrassimo ci scambieremmo un sorriso imbarazzato, che cela il ricordo di una passata complicità, di tanta vita vissuta, ma che da fuori non sembrerebbe altro che un rapido cenno di saluto. E se ci parlassimo non andrebbe di certo meglio: una serie infinita di formalità, un giro intorno al mostro di quello che vorremo dirci, ma del resto, cosa dovremmo dirci? C’è una vecchia canzone di James Blunt, Same Mistake, che ad un certo punto dice: “and maybe someday we will meet and maybe talk and not just speak”. È esattamente questo quello che intendo. Inizio a canticchiarla e quasi mi sembra di sentire Marco unirsi a me. Non pensavo da tempo a quel nome, che mi appare scritto nella testa con il font dell’ufficio ammissioni dell’Università. È così che l’ho letto per la prima volta. Marco è il nome dell’autore di quei messaggi.
Io e Marco eravamo amici, i migliori amici che si potessero immaginare. Forse c’era altro, forse no, ma a me piaceva vivere quel rapporto così come veniva, ignorando le critiche altrui. Io e lui ci capivamo e ci accettavamo, sino quasi a fomentare i peggiori lati l’uno dell’altra, e forse fu proprio questo il nostro errore. Dico che io e Marco eravamo amici perché ora non lo siamo più. Siamo due persone le cui vite si sono violentemente attraversate e sconvolte ma che dopo questo incontro si sono allontanate nel flusso della vita. Marco e io passavamo intere giornate a parlare del tutto e del niente, a fantasticare, a fare piani su un futuro che in fondo sapevamo non sarebbe mai esistito. Nonostante i nostri vent’anni giocavamo a far finta, viaggiavamo rimanendo in quegli otto metri quadri di stanza da fuori sede che chiamavamo casa. Marco e io in questo modo, fianco a fianco, seduti su un letto o dividendo l’unica sedia della scrivania, siamo andati ovunque, sui grattaceli di New York, nella periferia di Berlino, sulle spiagge californiane, ma anche a Mosca, a Tokyo nel quartiere degli anime, nel deserto del Sahara e in Cile ma, soprattutto, siamo andati nel nostro futuro. Ci immaginavamo già adulti, ognuno con il lavoro dei propri sogni, rimasti assolutamente fedeli ai nostri giovani ideali, realizzati in tutti gli ambiti delle nostre vite: io sarei stata tanto una donna in carriera quanto una madre modello nonché la moglie più sexy del mondo e lui sarebbe stato un uomo di classe, un intellettuale ormai sposato ma troppo affascinante per esserlo e padre di figli assolutamente eccezionali, decisamente più fichi di lui quando aveva la loro età. Il punto fondamentale dei nostri piani era, però, che entrambi avremmo avuto dei bellissimi biglietti da visita e un set di cartoleria da ufficio di classe, per scambiarci lettere su carta intestata. In un certo senso quelle lunghe chiacchierate sono state l’unico modo per noi di condividere un futuro. Insieme abbiamo vissuto la miglior versione possibile delle nostre vite, nonché l’unica che includeva entrambi.
Mi scopro a sentire a ripetizione la nostra canzone.
Decido di prendere il telefono e chiamarlo.
“Pronto. Sono Giorgia. Hai preso i biglietti da visita?”
