Scienziati, tra orgoglio e pregiudizio

Di Meriem Behiri

Viviamo in una società che sembra essere sempre estremamente attenta ai pregiudizi, propensa all’inclusività come non lo è mai stata. Ci sono, però, dei fattori che sono tanto
normalizzati da essere parte integrante della nostra cultura. Uno di questi, sicuramente il
minore anche perché si tratta di una piccola fetta della popolazione, riguarda quel filone di preconcetti su
alcune categorie lavorativo-accademiche, come per esempio che gli umanisti siano tutti
“fattoni” e gli scienziati siano tutti sfigati. Del primo problema so poco, mentre il secondo mi
tocca personalmente da anni, e in maniera sempre crescente.
Sono una dottoranda in astrofisica e cosmologia e so bene quello che tu, lettore, stai
pensando nel leggerlo: “Ah, ma allora sei intelligente (e secchiona)! Un’astrofisica che scrive
in un blog? Strano. Che palle! Sarà una povera nerd”.
Questa lista potrebbe andare avanti ancora, ancora e ancora, ma mi fermerò qui.
Iniziamo dal primo punto. Innanzitutto, il concetto di intelligenza è qualcosa di decisamente
ampio e complesso e sicuramente non conseguenza, e non del tutto causa, dell’aver
conseguito un determinato titolo. Ho deciso di fare scienza perché, tra le altre, mi
interessavano particolarmente certe tematiche e non perché avessi qualche dono o
“VOKAZIONE”. Mi sono iscritta all’università, peraltro con una immensa ansia di fallire
dovuta proprio all’alone di terrore da cui sono circondate le materie scientifiche
nell’immaginario comune, e mi sono messa a studiare, niente di più di quello che fanno o
dovrebbero fare tutti gli studenti. Ogni tanto le cose mi riuscivano più facilmente, altre meno.
Non sono mai stata un genio e come me praticamente tutti quelli che ho conosciuto in questi
anni, senza togliere nulla a nessuno. Semplicemente, c’è chi studia i manuali di diritto privato
e noi studiamo quelli di fisica. Serve tanta fatica? Spesso. La matematica e la fisica non
sono cose che si sanno, ma che si imparano, si esercita il cervello ad assumere una
determinata prospettiva così come si fanno gli addominali in palestra ma, davvero, con la
giusta motivazione e attenzione ce la fanno tutti. E no, non sono mai stata una secchiona,
come non lo sono la maggior parte dei miei colleghi. Sono una persona pigra, con miliardi di
interessi diversi dall’astrofisica, mi piace fare shopping, ascoltare musica trash, uscire e tutte
quelle attività definite “normali”. E sì, gli scienziati possono persino apparire curati e ben vestiti! Non è
assolutamente insolito o strano: non è una professione che richiede un particolare dress
code e sono tutti molto rilassati e aperti mentalmente, quindi se ti vuoi mettere in tiro lo fai,
così come se vuoi venire in tuta. L’errore sta in chi esaspera questa trascuratezza nerd alla
The Big Bang Theory, cosa che solitamente fanno matricole esaltate che difficilmente
arrivano alla fine del primo anno. Il bello, anzi, sta proprio nella totale rilassatezza
dell’aspetto formale e della sospensione di giudizio per questo tipo di convinzioni, dovuta al fatto
che la ricerca scientifica si svolge spesso tra persone di provenienze e culture diverse. In
sostanza, come per alcune professioni c’è tradizionalmente una attenzione alle apparenze,
nella scienza è tradizione che questa non ci sia,
ma ciò non implica trasandatezza: conosco astrofisici appassionati di make-up e
armocromia (la sottoscritta è una fiera estate soft profonda).
Proprio parlando di interessi trasversali si tocca, poi, un tema per me molto spinoso, che mi
ha spinta, per un periodo della mia vita, a dover specificare continuamente che non ero solo
“quella che studia astrofisica”, ma mi dedicavo e mi dedico a molte altre cose, tra cui ora scrivere su
questo blog, sul quale ho anche pubblicato un racconto che di astrofisico non ha
assolutamente nulla. Lo scienziato non è un fissato, è una persona che sì, ama fare scienza,
ma probabilmente ama anche tanto altro. Solo nel mio gruppo più stretto della laurea
magistrale avevamo una ginnasta, una blogger, un ciclista, ben due appassionati di basket,
svariati cuochi e panificatori provetti, chi faceva la maglia, ottime pittrici, fotografe, tutti
accomunati da una grande passione non tanto per l’astrofisica quanto per i bei posti, specie
ristoranti, e la musica trash, e credetemi, se dovessi elencare tutti i loro/nostri hobbies non
finirei più. Al dottorato la situazione non è cambiata, anzi, condivido l’ufficio con una
ex-cheerleader, una violoncellista e un pallavolista. Non siamo dei fissati, siamo persone che
puoi incontrare in libreria, a teatro, ma anche in discoteca, a fare aperitivo o a pogare sotto il
palco di un concerto metal.
Fa spesso male vedere come i pregiudizi su una categoria professionale siano così radicati
nella società, tanto da rendere cieco anche chi ci conosce da vicino da ben prima che solo
pensassimo di studiare scienza, come amici storici e parenti. Non facciamo una vita da
emarginati, fino a che non iniziano a pensarci tali, ovviamente. Non siamo tutti Einstein o
Margherita Hack (io ad esempio preferirei essere Nicole Kidman) e soprattutto non siamo
l’immagine che ci è stata trasmessa di loro, e non siamo nemmeno lontanamente come i
personaggi di The Big Bang Theory. Certo, per ovvi motivi salariali che di certo
meriterebbero un articolo a parte e di altro stampo, non siamo parte del jet set di Milano e
sicuramente spiazza l’idea che chi fa questo lavoro non lo faccia per soldi, ma ciò non toglie
che lo scienziato tendenzialmente, come ogni altra persona, non è un asceta. Basti guardare
un convegno scientifico: tanta ricerca intervallata da deliziosi coffee breaks,
luoghi ben più che suggestivi e serate di gala, perché anche il più ligio degli astrofisici
elargisce conoscenza più volentieri a stomaco pieno che a stomaco vuoto e con un buon
bicchiere in mano.

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