Parliamo di cinema: Dune, The French Dispatch, È stata la mano di Dio

Di Camilla Tettoni

Ah, il cinema, quello schermo in grado di portarti via, lontano, in mondi distanti, reali o fittizi, e di farti tornare più ricco di prima. Il cinema è un libro messo sullo schermo, un romanzo in cui i personaggi prendono forma e vita. Che meraviglia vedere un bel film circondati dal buio ed essere proiettati, senza distrazioni, direttamente nella storia raccontata. In questi ultimi mesi sono andata molte volte al cinema; l’agonia degli scorsi mesi, trascorsi al chiuso, è stata felicemente rotta dalle varie riaperture. In primis, per lo meno nel mio caso, dalla riapertura dei musei, dei teatri e dei cinema. Dei tanti film che ho visto, oggi vi voglio parlare di tre in particolare: Dune, The French Dispatch e, per concludere in bellezza, È stata la mano di Dio. Tre generi differenti, tutti e tre magnificamente prodotti e realizzati.

Dune è uscito al cinema lo scorso settembre; uno dei pochi casi in cui il film è uscito prima in Italia che in America. In tanti siamo accorsi al cinema, chi per il cast stellare (tra gli altri, Timothée Chalamet, Oscar Isaac, Javier Bardem, Zendaya, Jason Momoa), chi per il celebre romanzo che ha ispirato il film: l’omonimo Dune di Frank Herbert, pubblicato nel 1965. La saga di romanzi fantascientifici ha dato vita ad un primo film, diretto negli anni ’80 da David Lynch. La bellezza della pellicola uscita quest’anno risiede sicuramente nell’utilizzo di una scenografia naturale (come hanno dichiarato gli stessi attori, infatti, solo per due scene hanno utilizzato il green screen) e nello sviluppo della trama, fedele – per quanto possibile – al romanzo e capace di dare al contempo un rilievo psicologico al protagonista della vicenda, Paul Atreides. In un mondo fantascientifico, composto da vari regni governati da un comune imperatore, la dinastia degli Atreides viene incaricata di trasferirsi sul pianeta Arrakis, una landa desertica produttrice di una ricchissima spezia, prendendo il posto della truce dinastia degli Harkonnen. Le avventure durano un paio d’ore, ore che volano e lasciano lo spettatore in trepidante attesa di scoprire cosa accadrà poi. Primo di una saga, infatti, il racconto si interrompe in un punto saliente. Io, da parte mia, ho già risolto che comprerò il secondo libro di Herbert al più presto, perché non so se riesco ad aspettare un anno senza sapere come procede la storia.

The French Dispatch, invece, non è fantascientifico, ma surreale. Come tutti i film di Wes Anderson, la scenografia è parte dell’azione. Ogni palazzo, tenda, strada, persona è posto in un determinato luogo per un determinato motivo. Quanto ho amato The French Dispatch. Ormai lo avete capito, mi piace scrivere, e vedere un film la cui trama si basa su un magazine non può che affascinarmi. La trama non è unica, sono più storie, e ogni storia è un articolo del French Dispatch che prende vita sullo schermo. Per questo assistiamo, per la sezione di cronaca, al racconto di un tentato rapimento; per la sezione di arte, alla vicenda di un internato, un genio nella pittura finanziato da un mecenate truffaldino; per la sezione di storia e attualità, al racconto degli studenti in rivolta. La genialità della sceneggiatura si sovrappone al gusto per il cinema in bianco e nero: sono poche le scene a colori, e credo che anche questa scelta sia stata volutamente basata sul magazine in sé. I titoli di coda, infatti, presentano varie copertine della rivista, e in ognuna, accanto al prezzo, c’è scritto che “all’interno i lettori potranno trovare ben otto pagine a colori!”. Considerando le storie rappresentate a colori e i racconti, invece, in bianco e nero credo che il regista abbia voluto mantenere una simmetria (anche questa, geniale) con la rivista. Altro motivo per andare a vedere questo film? Il cast. Ve ne scrivo alcuni, considerando che gli attori presenti sono tanti e tutti famosissimi! Nelle pagine del French Dispatch troviamo Benicio del Toro, Lea Seidoux, Adrien Brody, Tilda Swinton, Frances McDormand, Owen Wilson, Bill Murray, Timothée Chalamet, Christoph Waltz.

Per ultima, ho voluto lasciare la pellicola di Paolo Sorrentino. Nessun suo film mi ha deluso, questo poi, È stata la mano di Dio, credo rappresenti davvero l’apice della sua carriera. Film emozionante, intimo, autobiografico. Narra le vicende dello stesso regista, chiamato nel film Fabio, della sua famiglia, della Napoli di quegli anni e della nascente passione per il mondo della regia. I colori della sua città e le canzoni di Pino Daniele fanno da sfondo alle parole, mai vane, mai leggere, di ogni personaggio. Insomma, una perla del cinema italiano, scelto per rappresentare l’Italia nella corsa agli Oscar per la categoria Miglior film non in lingua inglese. È sempre complicato scrivere di sé, figuriamoci rappresentarlo e guardare mentre qualcun altro interpreta te stesso. È impossibile guardare questo film e non uscire dalla sala con un forte sentimento nel petto, con la sensazione di aver assistito alla messa a nudo del regista. La sensibilità di Sorrentino si riversa nel soggetto, nelle scene, negli attori, nella bella Napoli che, a guardarla bene, non è cambiata così tanto.

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