Di Camilla Tettoni
Camminavo, lenta, per le strade alte e lunghe. Il tempo scorreva senza passare mai. Vedevo sullo sfondo il palazzo dal colore vivace: mi aspettava. Aspettava proprio me. E io non volevo crederci, non me la sentivo di crederci. Non ero la persona che credevo di essere, non lo sono tuttora. Ripensando a quei momenti di indecisione, a quanto sarei cambiata, a volte mi chiedo se ne sia valsa davvero la pena. Se tutti gli attimi vissuti dentro quel palazzo mi abbiano effettivamente portato qualcosa di buono.
Ad oggi ancora non lo so, o per lo meno credo di non saperlo. Sono passati giorni, mesi, anni, e le settimane che prima scorrevano lente ora volano via. Mi sento come se le ore di cui dispongo non siano mai abbastanza, mi pervade continuamente un senso di insoddisfazione profondo. Nel palazzo, le ore passavano lente. Ore di versioni e di insicurezze. Ore di giochi e di scherzi. Ore in cui ancora non si è compreso che la vita non è quella che si vive lì, seduti al sicuro dal mondo. Le matite prendono appunti, la mente desidera essere in un altro posto ma il cuore sa, in fondo, che fuori da quel palazzo non sarebbe stata sempre primavera.
Gli anni delle indecisioni, gli anni delle gite, gli anni in cui le prime preoccupazioni sono date da uomini e donne capaci di incutere timore con la sola presenza. Ancora non si sa chi si è, né dove si vuole andare. Sei tutti e nessuno, puoi essere chi vuoi e plasmarti a tuo piacimento. Le ribellioni, i brufoli, le insicurezze si sentono come non mai, e a volte vorresti sprofondare.
Mi sentivo la regina del palazzo, non perché volessi comandare sugli altri: comprendevo l’importanza di quei momenti e quelle ore non mi pesavano. L’edificio vicino, grigio e cupo, era il panorama che si poteva ammirare dall’interno. Ma non si aveva il bisogno di guardare fuori, tutto ciò che si poteva immaginare accadeva tra quelle quattro mura strette e lunghe.
È che ogni ora portava in un mondo diverso, da un cielo di equazioni ad un campo di battaglia tra Greci e Persiani. Eravamo 25, ognuno al proprio posto, ognuno al proprio banco. Fuori da quell’aula, da quel palazzo, eravamo 25 individui senza una propria sedia. Adesso che ho cominciato a capire chi sono e cosa voglio davvero ripenso a volte a quel palazzo arancione dalla forma particolare, posto tra l’intersezione di due strade. Quel palazzo piccolo, dai corridoi piccoli, senza cortile e con una palestra trapezoidale.
Vorrei sedermi accanto alla Camilla di quegli anni e dirle di godersi quei momenti, perché sono solo il principio di un viaggio, estenuante e meraviglioso, alla ricerca di noi stessi. Una ricerca non solo accademica e lavorativa, ma anche – e soprattutto – umana.
Ad oggi forse so cosa mi ha portato quel palazzo: al Dante devo la cultura che ho, a Dante i miei studi letterari. E se prima ero 1 di 25, ora sono 1 di 1, intera nella mia unità, con un nuovo banco e un nuovo palazzo, in cui non è sempre primavera, ma non è neppure sempre inverno.
