Di Camilla Tettoni
Belfast è un film delicato, dolce, segnato dai ricordi del giovane protagonista, Buddy. Racconta gli anni degli scontri tra cattolici e protestanti, in una Belfast in bianco e nero. Il tutto visto dagli occhi di un bambino.
Scrivere di Belfast non è facile, ho timore di rivelare troppo. È uno di quei film che vedi al cinema, magari un po’ per caso, magari perché ti incuriosisce il titolo e la storia che immagini ci sia dietro, e poi, una volta uscita dalla sala di proiezione, fa fatica a lasciarti. Belfast mi abbraccia ancora, con le sue scene prive di colore e i racconti di un’Irlanda separata da scontri fra persone appartenenti alla stessa religione, ma con “credi” diversi.
La famiglia di Buddy, seppur protestante, non acconsente a schierarsi dalla parte dei rivoltosi: si trova in buoni rapporti con i cattolici, vicini di casa. La tentazione di andare via, di vivere nella tranquillità c’è, e tale tentazione è esortata dallo stesso padre, che lavora in Inghilterra e torna in Irlanda ogni due settimane. Tuttavia, i rapporti con gli amati nonni, il legame con la città e il precoce sentimento per la dolce e cattolica compagna di classe, tengono Buddy in uno stato di negazione nei confronti della realtà fattuale.
La prima scena, il primo scontro, avviene mentre Buddy è vestito come un cavaliere: con una spada finta e uno scudo di latta, osserva spaventato la violenza che avviene intorno a lui. Ora che ci penso, ciò che ho più apprezzato del film è la verità nascosta dentro gli occhi di un bambino: la genuinità del racconto non prevale mai sui sentimenti di Buddy, catapultato a vivere in mezzo ai violenti disordini che sconvolgevano la sua città sul finire degli anni ’60.
La pellicola è molto semplice, evita formalismi inutili: Belfast è la vera protagonista, la Belfast dimezzata dal Regno Unito e dai suoi stessi abitanti. L’Irlanda del Nord, casa di molti estranei alla corona britannica: una nazione divisa in due, in tre, in quattro. La violenza dei protestanti ricorda (e anticipa) le lotte terroristiche che sarebbero avvenute pochi anni dopo. Eppure, il film non parla di questo, perché racconta l’infanzia di Buddy, la sua storia, la sua famiglia. Lo spettatore non può fare a meno di apprezzare l’intimità del memoir, l’autobiografia scritta e diretta dal regista Kenneth Branagh.
Le luci si accendono, il film è terminato: si esce con gli occhi lucidi, il cuore pieno, in testa molti perché e per come. Si torna alla vita a colori, ma ci si rende conto che, in fondo, è ancora tutto in bianco e nero.

La questione irlandese è un fatto tragico e purtroppo ancora attuale che riguarda noi europei.
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