Commenti a caldo su Elena Ferrante, “L’amica geniale”

Di Camilla Tettoni

Tempo fa vi parlai della serie tv tratta dai romanzi della Ferrante, di come non vedessi l’ora di sfogliare i suoi romanzi, la saga, dal primo al quarto libro, e di immergermi totalmente nella storia di Lila e Lenù.

Oggi, pochi minuti fa, ho sfogliato l’ultima pagina dell’ultimo volume, “Storia della bambina perduta”. Avverto in me un vuoto, che lentamente si sta appropriando dei miei pensieri, delle mie parole. È un vuoto nostalgico, la consapevolezza di aver terminato voracemente romanzi che vorrei poter ricominciare a leggere da capo, senza conoscerne la fine.

Nonostante io abbia visto in tv le prime tre stagioni, ho riletto con molto piacere i romanzi: scorrevoli, interessanti, scritti davvero molto bene. In uno stile personale, unico, pieno di virgole come piace a me, con pochi punti. Perché alla fine, se ci pensiamo bene, la vita è tutta una virgola. A volte un punto e virgola, raramente due punti. Ma quanto è difficile mettere un punto? Decidere la fine di un evento, di una situazione. Mi è sembrato che la fine della saga sia in realtà un nuovo inizio. Ma non temete: non ho intenzione di spoilerarvi nulla. Con queste tre parole, “un nuovo inizio”, non potete comprendere la vera fine del quarto volume. Però ecco, anche qui, più che un punto io ci vedo un punto e virgola.

È una delle poche volte in cui posso davvero apprezzare lo stile dell’autrice: solitamente si fa l’errore di giudicare lo stile di libri tradotti, lo faccio sempre anche io, senza comprendere l’importanza veicolata dalla traduzione in un’altra lingua. Il traduttore è un vero e proprio scrittore, un’anima creativa. Elena Ferrante scrive in italiano, con tanti flussi napoletani. Da anni, tuttora, si discute della sua identità. Ho trovato vari articoli che riportano il nome di una stessa persona, ed effettivamente alcune prove la inchioderebbero all’evidenza dei fatti.

Ma non mi interessa scrivere qui il suo nome, né spiegarvi perché ritengo giusta questa ipotesi. C’è un motivo per cui Elena Ferrante ha scelto di celarsi dietro a questo nom de plume, che sia un motivo editoriale o una scelta autobiografica non mi interessa. Ciò che importa è la verità della storia raccontata. Appare quasi tattile, la puoi toccare, la puoi sfiorare, la puoi sentire accanto mentre leggi, mentre sfogli le pagine, curiosa di vedere come andrà avanti anche se probabilmente già ne sei consapevole. Le parole si rincorrono, non hanno fine e davvero, i volumi hanno una media di 400/500 pagine l’uno, ma come scorrono bene, come rimangono impressi in chi li legge.

La voce di Lenù rimbomba nel cervello, le sue emozioni agitano il cuore, i piedi vanno dove va lei, gli occhi osservano Napoli, Firenze, Torino, Pisa con il suo stesso sguardo. È doloroso, ora, dopo qualche giorno di lettura intensa, separarmene. Gli altri romanzi di Elena Ferrante mi aspettano. Per il momento mi preme dire solo una cosa: non mi interessa sapere chi è, ma come descrive le donne, l’intuito femminile lei, per me, nessun’altra.

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