Sulla bellezza dell’arte e sulla realtà del Teatro Patologico: intervista a Francesco Giuffrè

Di Camilla Tettoni

Tempo fa, in una sera d’inverno, sono andata a vedere Il cappotto di Gogol’, un racconto tristemente avvincente riguardante l’omologazione che la società ci propone e, inconsciamente, ci obbliga a seguire. Il regista dello spettacolo in questione è Francesco Giuffrè, sceneggiatore e, per l’appunto, regista teatrale. Gli attori de Il cappotto hanno fornito una chiave di lettura unica alla storia, essendo diversamente abili: l’associazione Teatro Patologico, diretta da Dario D’Ambrosi, mette in scena drammi interpretati da ragazzi con problemi psichici. Il Teatro Patologico, con sede a Roma sulla Via Cassia, permette ai suoi partecipanti di raggiungere la bellezza di una vita scandita dall’arte. Con le loro performance dimostrano che non vi è niente di diverso in loro, è solo un altro concetto di normalità. Vedere i ragazzi dell’associazione all’opera mi ha molto emozionata: la verità del messaggio che trasmettono è pura, priva di secondi fini. Mettono in scena l’arte come è: unione, messaggio, bellezza, commozione. La finzione della scena teatrale non li riguarda, una volta terminato lo spettacolo gli applausi fanno fatica a terminare; lo spettatore non ha solo assistito, è entrato dentro lo spettacolo e non vuole uscirne. È stato un onore e un piacere, per me, intervistare un regista del calibro di Francesco Giuffrè. Insieme, abbiamo parlato del suo percorso artistico, del concetto di uguaglianza, di omologazione e della bellezza dell’arte, in grado di vincere sulla follia dell’uomo e di recare in sé un messaggio di speranza.

1)Partiamo dagli inizi: come hai conosciuto il mondo del teatro?

Si può dire che sono nato nel teatro, mio padre (l’attore Carlo Giuffrè) ha lavorato in quell’ambito. Mi ricordo a Natale le scenografie, gli oggetti di scena, la scatola teatrale così antica, il materiale di scena, povero e antico, che creava la magia assoluta del teatro. Per questo, tuttora, mi piace vedere gli spettacoli da dietro le quinte: trovo molto interessante il compromesso esistente tra l’artigianato del teatro e l’illusione per lo spettatore. Per quanto riguarda il mio percorso artistico, un giorno andai a vedere uno spettacolo di Eimuntas Nekrosius, che aveva messo in scena Il gabbiano di Cechov: in quell’occasione vidi un tipo di teatro nuovo. Quello spettacolo mi mostrò come ogni oggetto può diventare altro, si possono creare mondi che vanno oltre l’ordinario. Quindi, quando casualmente un mio amico mi propose una regia teatrale, io istintivamente andai per quella strada, che poi negli anni ho sempre più perfezionato trovando la mia cifra stilistica, a metà tra il teatro di tradizione e la potenza immaginifica della scena teatrale. Mi piace molto raccontare oltre le parole, il famoso “non detto”. Ho iniziato mettendo in scena dei romanzi, come Il profumo di Suskind. Trovo che l’opera narrativa sia veicolo di una materia più plasmabile, mentre nel copione la voce dell’autore rimbomba prepotentemente. Per questo, in seguito, mi sono dedicato alla messa in scena di altri romanzi, come Delitto e Castigo e Le notti bianche di Dostoevskij, Cuore di Cane di Bulgakov, Otello di Shakespeare. Recentemente, oltre a Il cappotto di Gogol’ al Teatro Patologico, ho diretto una novella di Pirandello, Così è se vi pare, al teatro Ghione.  

2)A proposito del Teatro Patologico, parlaci un po’ di questa realtà.

Il Teatro Patologico di Roma è stato fondato diversi anni fa da Dario D’Ambrosi: la caratteristica che rende unico questo progetto è l’internazionalità. Prima della pandemia siamo andati a Tokyo, a Johannesburg, dove la malattia mentale è indietro di 50 anni; quindi, per il pubblico aver visto dei ragazzi diversamente abili sul palco è stato un qualcosa di molto rivoluzionario. Al momento stiamo per realizzare un film con quattro protagonisti del Teatro Patologico, in uscita il prossimo ottobre. Si tratta di un racconto proposto da una casa cinematografica, di cui io ho curato la sceneggiatura: al centro della storia figurano quattro ragazzi diversamente abili che, una notte, rubano un pulmino per andare a Napoli a fare un provino. Nei due giorni che seguono assaporano la libertà e la bellezza di non sapere cosa accadrà. Questo film non vuole insegnare nulla, ma evidenziare che il concetto di normalità è molto labile: esiste un preconcetto da combattere. Preconcetti che i bambini non hanno, si creano crescendo. Grazie al Teatro Patologico ho riscoperto il gusto di fare il teatro per farlo davvero, senza gelosie e invidie. I ragazzi danno tantissimo, è uno scambio reciproco. L’omologazione è deleteria, l’unicità è invece qualcosa di speciale quando ha qualcosa di particolare e gli attori dell’associazione ne sono prova.

3)Ho notato che in molti tuoi spettacoli hai messo in scena opere appartenenti alla cultura russa. Cosa pensi del tentativo che si sta portando avanti di bandire, in qualche modo, la letteratura russa?

È un’assurdità che non riesco a concepire: rinneghiamo la guerra, dobbiamo rinnegarla, ma non possiamo rinnegare secoli di bellezza artistica. Cosa può risolvere questo rifiutare romanzi russi, quadri russi, il balletto? Mi sembra una sciocchezza madornale. È un’assurdità che non serve a nulla se non ad esasperare gli animi e a privarci di cose meravigliose. L’arte va oltre queste dinamiche becere: non dovrebbe occuparsi di questi fatti, né tantomeno riguardarli.

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