Un padre

Di Camilla Tettoni

Se gli uomini fossero oggetti sarebbe tutto più semplice. Se fossero una fotografia, una chiave, un foglio dimenticato in un cassetto, sarebbe più facile ritrovarli. Ma quando scompaiono, gli uomini, non ritornano mai più. Come mio padre.

Gli anni scorrono, lenti, eppure il ricordo di lui non se ne va. Scorre nel tempo, col suo sigaro bruciacchiato e la giacca un po’ sgualcita sul fondo. Le ore non cambiano il loro corso, rimangono stabili nel percorso assegnato da chissà chi, e quando mi incanto a guardare l’orologio a pendolo non posso fare a meno di specchiarmi sulla sua superficie e di osservare, di rimando, come il mio volto assomigli sempre di più al suo.

Impostato, con una sciarpa in mano e uno zaino buttato svogliatamente dietro le spalle, porto in me le due anime di mio padre: l’eccessivo rigore e il disprezzo per il buon gusto deciso da altri. In ufficio osservo i miei colleghi con una curiosità onnivora, ero pronto a carpirne i comportamenti, i gesti, così da comprendere quali non avrei dovuto imitare. Me lo aveva insegnato per primo mio padre, quando mi portava alle partite di calcetto per prendere spunto dagli errori altrui.

“Vedi”, mi diceva, “se ti comporti come quel bambino non concluderai mai nulla. Passa la palla a destra e sinistra, ma ha paura di provare a fare gol. E quell’altro, quello laggiù, si nasconde, non vuole che gli si passi la palla, e dà spazio all’altro, che invece prova sempre a tirare in porta, a farsi vedere, sbagliando la maggior parte delle volte ma per lo meno ci prova. Non devi essere come lui, perché se ti fai notare attirerai invidie e ti sarà più difficile conseguire successi. Sii un centrocampista, passa la palla, stai defilato, tira solo quando necessario, ma tira bene, e vedi che chi di dovere non si dimenticherà di te.”

Io ascoltavo le sue parole, me le ripetevo dentro nonostante – e questo è buffo, lo riconosco – io non giocassi nemmeno a calcetto. Ero un solitario, “un’anima per pochi”, come mi definiva mio padre, “un sociopatico”, come mi definiva mia madre, “un bambino particolarmente introverso”, come mi definiva lo psicologo. Non parlavo, mi chiudevo a guardare fuori il cielo, immaginando di disegnarci sopra il mondo in cui avrei voluto vivere. Per tanti anni, in quel mondo c’è stato solo mio padre.

Mia madre voleva che facessi uno sport, così da fare amicizia e non stare sempre in casa. Papà mi comprendeva, voleva darmi tempo, diceva di rivedersi in me e che non si ottiene mai nulla di buono se si è messi sotto pressione. Quando ripenso a lui, oggi, so che il suo portarmi alle partite di calcetto era anche uno stimolarmi a provare un interesse per quello sport. Era molto tifoso, non di una squadra in particolare, ma del calcio in sé. Odiava i particolarismi, le violenze e gli insulti tra tifosi: secondo lui rovinavano la purezza del calcio, l’unità delle squadre. Il sogno di mio padre era diventare arbitro, me lo disse una volta, ma i miei nonni vedevano per lui un futuro nello studio legale di famiglia.

Solo quando mi sono trovato a studiare giurisprudenza anche io ho compreso gli sforzi portati avanti da mio padre, il piacere che è necessario avere per studiare una materia del genere. Mi ricordo che il vedermi contento di studiare legge gli fece comprendere, per la prima volta, che non ero del tutto come lui. Mi aveva sempre protetto perché rivedeva in me delle sue debolezze, ma quel fatto lo spinse a lasciarmi camminare da solo, pur non abbandonando mai il mio fianco.  

Mi ero fatto degli amici, e negli stessi anni portai a casa la prima fidanzata. Aveva un nome particolare, di quelli che non si sentono spesso in giro, Teresa, e mio padre ne fu entusiasta. Mia mamma continuava a fare commenti sulla sua altezza, papà vedeva qualcosa in più in quella ragazza, un guizzo negli occhi che, a suo dire, non tutti hanno. Teresa aveva conquistato mio padre molto più di quanto avesse conquistato me, e vedevo in lui – per la prima volta dopo molto tempo – un nuovo desiderio di apparire attraente ed elegante. Le loro conversazioni duravano sempre tanto, troppo, mia madre non voleva che la portassi più a casa, mentre mio padre mi chiedeva sempre di lei. Arrivammo ad un punto in cui temetti che la mia famiglia si disgregasse proprio per colpa di Teresa. La lasciai, senza pensarci due volte. Mi ricordai dopo, troppo tardi, che mio padre era in possesso del suo contatto telefonico e poteva in ogni caso sentirsi con lei. Gli chiesi di evitare, e lui mi giurò che l’avrebbe fatto. Ritenni questo episodio un capitolo chiuso e andai avanti.

La seconda ragazza che portai a casa aveva un nome ancora più particolare, Carmela, ereditato con orgoglio dalla nonna paterna. Con lei avvenne il contrario, mia madre se ne innamorò mentre mio padre non poteva vederla. Non capiva come fossi passato da una giovane donna affascinante e intelligente ad un’“oca giuliva in cerca di un pollaio in cui primeggiare”. Stetti tanto tempo con Carmela, col senno del poi forse ci stetti troppo. Mi piaceva l’equilibrio che si era creato in casa, rotto solo dal ritorno di mio fratello.

Mio fratello, sì: sono consapevole di non averne ancora parlato. In realtà non era voluto, anzi. Non ci ho proprio pensato, come non lo penso nella vita di tutti i giorni. So che c’è, e tanto mi basta. Condividiamo lo stesso cognome, ma a parte questo poco altro. Io alto e moro, lui basso e biondo, io taciturno, lui esageratamente estroverso. Alle mie doti panchinare si opponevano le sue bravure olimpioniche: ho vissuto con lui un confronto terribile, seme della rovina della mia adolescenza. Non gli parlavo mai delle ragazze che mi piacevano perché avevo paura che potessero cominciare a piacere anche a lui e che mi soffiasse il colpo. Per mia fortuna, rivelò a breve di essere omosessuale. Nella mia insicurezza, non riuscii ad accettare neanche questo: aveva avuto il coraggio di rivelare una cosa così importante ai miei in un modo acuto, intelligente. Ai loro occhi lui rimaneva sempre il primo, l’unico, il figlio perfetto. Io l’eterno secondo, con qualche problemino qui e lì.

Quando mio fratello tornò da un lungo viaggio fatto – senza neanche dirlo – per eminenti scopi umanitari che lo avevano reso un Cavaliere della Repubblica, portò con sé Alejandro, un giovane uomo bellissimo. Mia madre perse la testa, mio padre parlava a lungo con lui per poter conoscere la sua cultura, i suoi modi di fare. Gli parlava di un viaggio fatto anni prima, da giovane, nel Sud America, quando era scappato dalla tirannia del padre. Quel viaggio l’aveva cambiato, gli aveva fatto comprendere – a suo dire – l’importanza di avere un benessere economico e un lavoro che, un giorno, gli avrebbe permesso di aiutare molte persone. Questo sogno di papà, in realtà, non avvenne mai: da avvocato civilista, le cause che gli capitavano lo rendevano perennemente insoddisfatto. Proprio per questo ammirava il primo figlio, che si era dedicato allo studio dell’ingegneria ambientale così da apportare miglioramenti nelle parti più povere del mondo.

Alejandro arrivò a casa nostra proprio nella terribile estate in cui la canzone di Lady Gaga rimbombava in tutti i bar, ristoranti, spiagge, taverne, e chi più ne ha più ne metta. Alejandro era al centro di tutto, e a me venne a noia Carmela: se non serviva a dare equilibrio alla famiglia, qual era il significato del suo ruolo? Per lungo tempo rimasi solo. Ero incappato nuovamente nel disagio che mi aveva colto da bambino. Allontanai i pochi amici che avevo, mi rinchiusi in un vortice di lavoro e di solitudine che durò diverso tempo: le settimane diventarono mesi, e poco prima che i mesi formassero un anno di vita sprecata mi decisi a dare una svolta alla mia vita. Avrei preso un appartamento in affitto, sarei andato a vivere da solo. L’Italia è il paese dei mammoni, avevo letto, e io decisamente non lo ero. Solo, non sapevo come affrontare il discorso con mio padre.

Avevo visto come aveva reagito quando mio fratello era andato a vivere con Alejandro: era contento, ma il suo sorriso nascondeva tanta tristezza, lo vedevo. Quel giorno fu particolarmente affettuoso con me, non mi lasciava, io ero lui e lui era me, me lo ripeteva continuamente. Notai per la prima volta che stava invecchiando, i capelli erano bianchi e il volto cominciava a perdersi nel reticolo delle rughe nate presto, per il troppo fumo. Lo guardavo, e mi ripetevo se valeva la pena andarsene. Mi sarebbe mancato, mi sarebbero mancati i nostri silenzi, le partite di pallone la domenica, i pranzi surgelati riscaldati insieme quando mamma era al lavoro e io avevo il giorno libero.

Papà aveva smesso di lavorare da un paio d’anni, e soffriva lo stare a casa. “Viaggia, papà, chi te lo impedisce” gli dicevo, ma lui mi rispondeva che non voleva far rimanere male mamma, che voleva aspettare l’estate per fare un viaggio insieme. Allora capii cosa dovessi fare: organizzare un viaggio solo per noi due. Non ero pratico di computer, preferii andare in un’agenzia di viaggi. Chiesi loro suggerimenti sulla meta: mi consigliarono la Spagna, Barcellona. Accettai subito, comprai tutto: a casa papà riposava sul divano. Gli lasciai i biglietti vicino, sul tavolo. Non se ne accorse per ore. La sera corse in camera mia: “Cosa vuol dire?” chiedeva, ad alta voce, emozionato. “Vuol dire che partiamo, papà.”

Uno dei nostri film preferiti era il classicone con Sordi e Verdone, “In viaggio con papà” mi sembra si chiamasse: ebbene, eravamo così felici che questo paragone ci venne in mente solo al termine, sull’aereo di ritorno. Barcellona ci aveva accolto bene, con un ottimo clima e bei paesaggi. Avevamo fatto una gita anche allo stadio, così da guardare insieme una partita. Papà commentava i giocatori nello stesso modo in cui commentava i dilettanti che andavamo a guardare quando ero piccolo. Capii che era un modo per ricordare quei tempi. Non lo diedi a vedere, ma mi commossi. Guardando papà mi resi conto, forse per la prima volta, che non era immortale.

Tornati a casa eravamo più uniti che mai, e fu un colpo dovergli annunciare che mi sarei trasferito. Sapevo che avrebbe reagito male, e così fu. O meglio, così non fu. Mi sarei aspettato una sua reazione ma, semplicemente, evitò di reagire. Non disse nulla, si limitò ad annuire. Anche i giorni successivi, mi guardava e parlava tranquillamente, ma a monosillabi. Il giorno del trasloco insistette per accompagnarmi nella nuova casa, mi aiutò con le scatole. Prima di uscire dalla porta di ingresso, si volse per guardarmi. Mi diede una pacca sulla spalla, che avvertii più forte di un abbraccio. “Ricordati: rimani sempre centrocampista.” Chiusi la porta, e scoppiai a piangere.

Nonostante il dolore della mancanza, l’andare a vivere da solo mi aveva fatto bene: ritrovai la serenità, l’indipendenza. Il lavoro procedeva bene, era tanto. Una sera mi aggregai ad un gruppo di amici, andammo in un bar. Conobbi una donna, bella, intelligente, mi piacque subito. Con Beatrice cominciammo a parlare quella notte, e non ci fermammo più. La presentai a casa, veramente innamorato per la prima volta, e dopo poco tempo le chiesi di sposarmi.

La cerimonia fu semplice, senza pretese: Alejandro e mio fratello si presentarono con loro figlio, che avevano chiamato Alistair, scozzese per Alessandro, e io per la prima volta fui contento della presenza di mio fratello. I miei genitori erano felici, felici per me, felici della donna che avevo scelto, della famiglia che avevo sposato, e furono sorpresi di vedere quanti amici avevo invitato per celebrare con me quel giorno. Riconobbi in mio padre l’orgoglio di avermi visto crescere come figlio, in mia madre il sollievo di esser venuto su “normale”.

I mesi scorrevano felici con accanto Beatrice. Ci trasferimmo nell’appartamento che avevo affittato, e che era rimasto così come l’avevo trovato, vuoto, senza nessun abbellimento. A poco a poco i colori cominciarono a colorare muri, sedie, tavoli e stanze. A lavoro ero felice, ma ero ancora più contento di tornare a casa. Dopo un annetto Beatrice rimase incinta, ricordo ancora quando lo comunicammo ai miei. Mio padre era felice come un bambino, accarezzava la pancia di mia moglie, mi abbracciava, non vedeva l’ora di baciare l’esserino che sarebbe nato di lì a pochi mesi. Mia madre cominciò a cucire bavaglini su bavaglini, tutti rosa perché se lo sentiva, era una femminuccia.

Decidemmo di non voler scoprire il sesso. Alistair cresceva forte e in salute, nonostante non fosse il figlio naturale di mio fratello e del compagno sembrava aver preso da loro la fulgida bellezza. Io puntavo tutto su Beatrice, era lei la bella della coppia. Speravo che il piccolino potesse riprendere anche il suo carattere, la sua forza, la sua tenacia. A mano a mano che il parto si avvicinava ero sempre più emozionato.

Due giorni prima della data stabilita mi arriva una chiamata, nel cuore della notte. È mia madre, che mi chiama “solo perché tuo fratello non mi risponde”. Non capisco quello che dice, corro a casa. Trovo papà che dorme, tranquillo. Mamma è ai piedi del letto, disperata. “Non si sveglia, sono ore che dorme.” I lamenti e le urla svegliano i vicini, che bussano alla porta. Mamma va ad aprire, io rimango con papà. Mi sembra che sorrida. Mi sdraio accanto a lui, abbracciandolo. Le persone cominciavano ad arrivare, ma io avevo bisogno solo di un momento con lui.

“Ti prometto che rimarrò sempre centrocampista, papà”.

Due giorni dopo avevo due eventi in programma: il parto di mia moglie e il funerale di mio padre. Lasciai a mio fratello il compito di elogiarlo, era sempre stato più bravo di me con le parole. Alla messa incontrai, in disparte, Teresa, la mia prima fidanzata. In seguito, non seppi come prenderla; sul momento fui contento che aveva voluto ricordare papà e pregare per lui. Dopo la funzione, corsi in ospedale: erano iniziate le doglie. Ammirai Beatrice ancora di più, sono certo che non sarei mai stato in grado di portare a termine quello che è stata capace di fare lei. Il dolore più grande ha dato vita alla gioia più grande: un maschietto, di nome Enzo.

Se gli uomini fossero oggetti sarebbe tutto più semplice. Se fossero una fotografia, una chiave, un foglio dimenticato in un cassetto, sarebbe più facile ritrovarli. Eppure, anche se scomparso mio padre era tornato, e questa volta l’avrei cresciuto io, con tutto l’amore di cui ero capace.

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