Verità e giustizia

Di Camilla Tettoni

Un uomo entrò nell’aula del tribunale. L’eccessiva magrezza permetteva di scorgere le costole sotto la maglietta celestina e aderente. Aveva una mano poggiata con forza sul volto, scavato ed abbronzato. Non aveva espressioni, lo sguardo era assente.

Venne fatto sedere da due carabinieri che lo sorreggevano, sembrava facesse fatica a camminare da solo. Il sole entrava prepotente, illuminando il banco dove si era seduto. La luce permise alle persone presenti di discernere il colore dei capelli, di un rosso ramato, e il profilo greco, austero, bello, forte.

Quando il giudice entrò, al pubblico parve di vedere una smorfia sul volto dell’uomo.

“Sembra molto giovane… Secondo me ha una quarantina d’anni… Ma no, ne avrà a malapena trenta…”

L’imputato si voltò verso i curiosi, mostrando per la prima volta gli occhi: cerulei, grandi. Sembrava cercasse qualcuno. Dopo poco si volse nuovamente verso il giudice.

“Si tolga la mano dal volto, non posso processarla se non la vedo per intero.”

Lentamente, allora, lasciò cadere l’ultima difesa. Chiazze violacee rovinavano il viso, l’occhio era chiuso e gonfio, il naso proteso a sinistra.

Un mormorio si diffuse in tutta l’aula; i lineamenti dell’uomo, dall’età ancora più indefinita, erano divisi in due parti: tanto erano ben delineati da una parte, quanto erano tumefatti dall’altra.

“Cos’è successo… ha sbattuto… ha dato adito ad una rissa…”

Un rumore sviò l’attenzione di tutti verso la porta d’ingresso. Una donna, alta e occhialuta, aveva preso posto sul fondo. L’imputato cominciò a fissarla, mostrando per la prima volta animo nel suo sguardo. La donna si alzò, si guardò intorno con aria interrogativa, si spostò ai primi posti.

“Deve dichiarare il nome, il luogo di nascita, l’età, lo stato civile.”

L’imputato non rispondeva, guardava la donna che piangeva, singhiozzando. Fu questione di un attimo, e il cielo si riempì di nuvole. Visto all’ombra, l’uomo sembrava essere tornato normale. Il carabiniere alla sua destra lo invitava a rispondere, ma lui continuava a guardare dritto davanti a sé, come se non ascoltasse più.

All’improvviso, come ripresosi da un incubo ad occhi aperti, rispose piano alle domande, senza distogliere lo sguardo dalla donna che sedeva di fronte a lui.

“Cosa ha detto?… Come si chiama?… Non si capisce nulla…”

La donna in prima fila si volse, decisa, verso il mormorio che la seguiva, ormai, dovunque andava, di giorno, di notte, in vita, in sogno. Erano anni che combatteva una guerra sua, loro, e non si sarebbe fermata.

“Si chiama Stefano Cucchi, e avrà giustizia”.

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