Generazione Ryanair

Di Meriem Behiri

Siamo la generazione del “mi manchi”, delle chiamate su zoom, del “chissà quando ci vediamo”. È il 2023. Abbiamo vissuto una pandemia che ci ha costretti a stare lontani, ma ci ha anche insegnato come stare insieme senza stare insieme: un messaggio, una risposta a una storia, una videochiamata, un vocale, o semplicemente una “reaction” o un video stupido per ricordare all’altro “io ci sono”, “io di te mi ricordo”, “per me esisti ancora”. Per noi zennial questa dei rapporti a distanza non è stata solo una fase, ma è la nostra vita. Avevamo tra i 24 e 25 anni quando tutto e cominciato, ora andiamo verso i 30. Siamo passati dal sentire i nostri amici su zoom per il Covid a farlo perché nel frattempo i più fortunati di noi hanno cercato e forse trovato lavoro altrove, lontano, lavori precari, lavori instabili, che non ci concedono di affezionarci troppo a luoghi e persone. Siamo cresciuti nel mito di girare il mondo, di viaggiare, e ora lo facciamo spesso, ed è bellissimo, però a quali condizioni? Viaggiare è una delle cose più belle da fare nella vita, ma è ancora meglio quando al ritorno hai una casa, un luogo dove tornare e trovare tutti i propri affetti. Ecco, il più di noi questo luogo non ce l’ha. A parte la famiglia, che ormai abbiamo lasciato da anni e che resta l’unico punto fisso da cui tornare, tutti i nostri amici, gli affetti che ci siamo creati crescendo, sono dislocati nei luoghi più disparati del pianeta, a lottare per ottenere un futuro che difficilmente avremo, mentre le generazioni precedenti ci dicono che non abbiamo voglia di lavorare, di fare niente, che pretendiamo troppo se con due lauree richiediamo almeno il minimo salariale per un full time. I più grandi di noi furono chiamati “choosy” quando si affacciavano appena alla vita adulta. Ma noi siamo cresciuti nel mito dei film americani anni 2000 della brillante carriera a tutti i costi, per vederlo poi cadere irrealizzabile: il mondo dorato del successo e della meritocrazia, dell’aver raggiunto a trent’anni risultati tali da renderci autonomi e in grado di mettere su una famiglia, non esiste. Le promesse fatteci da bambini sono state tradite, tra una pandemia, le guerre, la crisi climatica di cui cerchiamo da soli di farci carico. Nonostante ciò, molti di noi vogliono ancora sognare, credono nella perfettibilità del mondo, del “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”. Quindi, eccoci qui, con il bagaglio a mano delle dimensioni consentite da Ryanair mentre diciamo addio a tutti gli amici a cui, nostro malgrado, ci siamo affezionati durante l’ultimo posto che ci eravamo quasi abituati a chiamare casa. In quella valigia abbiamo messo le promesse fatte ai noi bambini, un po’ come quelle di Chiara Ferragni ma con qualche assegno in meno, la passione per quello che facciamo, la voglia di andare a letto sì in un posto diverso ogni tre per due, ma almeno fieri di non esserci arresi e di esserci presi cura della nostra di oceano, con la speranza che ci siano altri come noi e che quelle gocce almeno potrebbero fare un laghetto pulito. Così ci diciamo il classico “oh, questo non è un addio, ma un arrivederci” e abbiamo (quasi) imparato a non piangere più. Ci dicono che abbiamo paura di legarci, ma non è paura, è istinto di sopravvivenza.

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