Ragazza alla finestra

Di Camilla Tettoni

La sveglia aveva suonato in orario, ripetutamente, ma Elisa non l’aveva sentita. Dei colpi forti, ritmicamente reiterati, l’avevano sottratta al torpore mattutino. Svogliatamente, aveva aperto la porta della camera ed era entrata nel salottino.

La giornata non prometteva bene, le nuvole coprivano il sole. Le tende, di un colore indefinito tendente al nero, usurate dal troppo uso e dal troppo tempo, scendevano fino a toccare terra. Il divano, ricoperto da un telo arancione, occupava lo spazio tra il finestrone e la porta, bianca e malfunzionante: l’unico modo per chiuderla era incastrare una sedia davanti, ma bastava una lieve spinta dall’esterno a farla riaprire. Di fronte al divano una credenza antica, in legno, conteneva piatti e tazzine; cozzava visibilmente con l’arredamento della casa, che sembrava essere stato rubato da un ospedale. Il cucinotto, piccolo e senza finestre, era sempre sporco, sempre disordinato.

Elisa non sapeva più come comunicarlo ai suoi coinquilini, si era arresa ad una vita nella melma. Armata di guanti, per evitare di sfiorare per sbaglio robe inappropriate, ogni mattina si dedicava alla sacra apertura del suo scaffale, l’unico senza un filo di polvere, dove custodiva gelosamente il cibo e i vari utensili.

Una volta seduta, tirò fuori la fedele agendina su cui aveva meticolosamente annotato tutti gli impegni del giorno. L’essere rappresentante di facoltà le imponeva un approccio quotidiano con i docenti, e un’esposizione continua alle lamentele dei suoi colleghi studenti. Quella mattina ne avrebbe incontrati alcuni per affrontare apertamente il problema causato da un professore che, si diceva, fosse particolarmente viscido con le sue studentesse. Elisa mangiava, tranquilla, i cereali, ma malediceva dentro di sé il tempismo di quell’incontro.

All’improvviso, un rumore: un uccello era volato e si era fermato vicino il finestrone. Era un gabbiano, grande e bianco. Si mise ad osservarlo, curiosa. Solo dopo qualche secondo, si rese conto che teneva qualcosa nel becco. Qualcosa di piccolo. Un uccellino.

Corse al bagno a vomitare. Si era dimenticata di disinfettare il water: vomitò di nuovo. La casa era cupa, buia. Sembrava che, a parte lei, non ci fosse anima viva. Eppure, anche se fosse stata sola, in realtà non lo sarebbe stata. Questo pensiero momentaneo, arrivato per caso, senza un apparente motivo, la fece sprofondare in un profondo sconforto.

Impedì alle lacrime di uscire, mentre si preparava. Il rituale mattutino prevedeva una leggera colazione e una lunga e precisa vestizione. Quella mattina, però, non riusciva a trovare l’abbigliamento adatto, nonostante ci pensasse dalla sera precedente. Alla fine, optò per una gonna violacea, una camicia color rosa antico, un gilet a rombi verde e viola. Legò i capelli in una coda alta e ordinata. Prima di uscire, prese il cappotto pesante e l’ombrello. In strada, cambiò idea e tornò indietro: il giallo dell’ombrello stonava con i colori che indossava.

Si rendeva conto di esagerare, ma faceva bene: dopo quel giorno, tutto sarebbe cambiato. Non sarebbe più stata la stessa. La clinica le aveva confermato l’appuntamento alle 17. Aveva ancora qualche ora per sé, per loro. Tanto valeva portare all’estremo le sue esigenze, almeno per quel tempo che le rimaneva.

Cambiato il cappotto e sistemata la gonna, stretta in pancia, riuscì in strada.

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