Di Camilla Tettoni
Un ragazzo di poco più di vent’anni irruppe nella sala a spettacolo già iniziato. In scena era rappresentato l’Amleto: non si sapeva se facesse o meno parte della crew di attori che animava il palco da circa un’ora.
Camminava, spaesato, nella platea. Si guardava intorno, attonito.
“Sarà arrivato in ritardo… Ma no, guarda che secondo me sta recitando… Sarà un’entrata di scena…”
La gente mormorava, osservava la sua andatura calma e lenta, lo sguardo sperduto, la giacca elegante. Le luci scure non permettevano di distinguere molto dei suoi lineamenti, dalla stazza sembrava un giovane piacente.
Continuava a camminare, avanti e indietro, quasi cercasse qualcuno. Con una mano si chiudeva la giacca, stretta intorno al petto.
“Signore, qual è il suo posto? Non può vagare durante lo spettacolo, distrae il pubblico e gli attori.”
La maschera era intervenuta in modo risoluto. Il tono, alto e distaccato, era stato avvertito da molti. Il teatro, d’altronde, non era grande, e ogni movimento era facile da intercettare.
“No dai, cos’è questa durezza… Si vede che non sta bene… Forse è successo qualcosa…”
Gli spettatori cominciarono ad essere attirati da quel giovane, l’Amleto era stato rilegato in secondo piano. La tragedia che si stava consumando sul palcoscenico era ben nota, il mistero del ragazzo dalla giacca elegante e dalle poche parole suscitava ben più interesse.
Dal nulla, si levò una voce dai palchi superiori. Una signora distinta, ben vestita, si sporgeva verso il basso, protendeva le mani come per toccarlo. Ululava “Luca, Luca” a ripetizione, si sbracciava. Si cominciò a temere che potesse cadere di sotto. “Luca, Luca”, gridava senza sosta.
Gli attori, finalmente, capirono che qualcosa non andava e fermarono la performance. Si accesero le luci, e si poté dare uno sguardo più dettagliato alla fonte di distrazione. Luca guardava verso l’alto, senza inquadrare il punto di provenienza del suono costante, lacerante; sembrava non riuscire a vedere. Poi, fu questione di un attimo: svenne.
“Fermi tutti, sono un medico!”, gridò una persona seduta lì vicino. Fino a quel momento aveva osservato la scena senza fiatare.
Un silenzio assordante riempì il teatro, gli spettatori cercavano di osservare cosa accadesse al povero Luca.
“Che bel ragazzo… Poverino… Deve essergli capitato qualcosa di brutto…”
Luca rimaneva a terra, incosciente. Una grande macchia di sangue si allargava a dismisura sul costato, macchiando la camicia bianca. Quella che doveva essere la madre era riuscita a scendere, nel frattempo. Scortata da un’altra signora, forse un’amica, si disperava guardando le condizioni del figlio.
Nessuno si distraeva parlando o guardando il cellulare. La situazione aveva attirato troppo l’attenzione.
Una volta ristretta l’emorragia con un panno di fortuna e alzate le gambe in alto, così da farlo riprendere, Luca rinvenne. Mormorò qualcosa al dottore, chiuse gli occhi, li riaprì.
La mamma si era seduta accanto a lui, gli accarezzava piano la testa. Il doloroso ululato era stato sostituito da un pianto singhiozzato.
“Dice che non vede più… Che ha fatto un incidente… Sì, ha detto che era in ritardo e andava veloce, ma ad un certo punto non vedeva più bene… Ha fatto il botto contro qualcosa…”
La suspense venne alimentata dal timore che qualcun altro si fosse ferito. L’ambulanza e la polizia arrivarono presto: il giovane venne portato via d’urgenza. I poliziotti si dedicarono a rintracciare il suo veicolo.
“Dicono che ha preso una macchina parcheggiata in una strada chiusa… Nessun altro si è fatto male… L’altra macchina si è danneggiata molto…”
Un agente salì sul palco, ormai vuoto da un po’. Gli attori si trovavano tra noi, altrettanto interessati alla vicenda. Quando il poliziotto lesse la targa della macchina coinvolta, mi prese un tuffo al cuore: tra tutte, proprio la mia.
