Di Camilla Tettoni
“Avevano spento anche la luna” è uno di quei libri che ti mangia dentro. Sfogli le pagine, e non riesci a smettere di leggerle. Ho letto questo libro in un pomeriggio, e non perché la sua lettura sia facile. Tutt’altro. È senz’altro molto scorrevole, la traduzione in italiano è ottima. Ma la storia raccontata da Ruta Sepetys è ispirata a fatti veri, verissimi, non del tutto ricordati e tramandati. Ed è questo che tormenta, e che spinge l’affamato lettore ad un’ingordigia di lettura.
La lettura non è facile per un motivo ben preciso: per la crudeltà di ciò che viene raccontato. Al centro della trama, una famiglia lituana, composta da padre (rettore universitario), madre (casalinga), e due figli, Lina e Jonas. A raccontarci la storia è Lina, studentessa quindicenne che la notte del 14 giugno 1941 viene deportata di casa con la madre e il fratello più piccolo verso luoghi ignoti e per motivi non noti. Il padre non tornava a casa già da giorni.
La deportazione è terribile. Per settimane, i tre sono stipati in un carro da bestiame, insieme ad altre decine di persone. Senza un bagno, senza cibo se non una zuppa una volta al giorno, senza la possibilità di sgranchirsi le gambe quotidianamente. Ma questa è solo la prima parte del racconto, che continua col trasferimento di centinaia di migliaia di persone – inconsapevoli e ignari delle loro colpe, del crimine commesso – nei gulag.
I gulag sono i campi di concentramento creati e gestiti dal regime sovietico, attivi dal (badate bene) 1918 al 1987. Fino agli anni ’80 del secolo scorso, i dissidenti del regime dittatoriale sovietico venivano allontanati dalle loro terre, separati dalle loro famiglie, e ridotti a vivere in condizioni penose, a subire la pena di lavori forzati, con solo una razione di pane al giorno in cambio.
Questa è una parte di Storia che non si studia a scuola, se non di sfuggita. I sovietici sono stati i primi a liberare il campo di Auschwitz. I sovietici sono stati alleati con la parte “giusta” della guerra, con gli Americani e i Britannici, ignari dell’esistenza di questi campi di concentramento. Fino al 1991, anno in cui l’Unione Sovietica venne dissolta per volere dell’allora Presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Gorbaciov, parlare dei gulag non era permesso. I sopravvissuti, alcuni dei quali rimasti imprigionati per 20 e più anni, la maggior parte mai tornati e sepolti in tombe senza nome – nei luoghi sperduti nei quali erano stati inviati -, non potevano parlare della loro esperienza. Pena, una nuova prigionia.
La forza di questo libro è nel raccontare la testimonianza di quello che accadeva. Della crudeltà delle guardie del NKVD – Commissariato del popolo per affari interni -, poste a controllare i prigionieri, e ad abusarne. Il bello di questo libro, poi, è nel descrivere le nuove relazioni umane che si formano. È nel raccontare come nella brutalità di una democrazia e una società negata, nascono relazioni vere, genuine. Di come le differenze si appianino, e portino alla formazione di una comunità nuova, arcaica, volta alla ricerca estenuante di una sopravvivenza mai data per scontata.
Insomma, una storia vera, tragica, interessante, che fa tenere il fiato sospeso fino all’ultima pagina, senza mai deludere le aspettative. Una lezione di Storia necessaria, che fa comprendere che il nemico, in ogni conflitto, non è mai uno solo. Impariamo dalla Storia, e impariamo da questo libro.
Leggetelo, non ve ne pentirete. La trama è molto ben raccontata, e io non vi ho voluto dire nulla se non la situazione iniziale. Non voglio rischiare di dirvi troppo. È un romanzo che va assaporato, interiorizzato e tramandato. Per evitare che ciò che è accaduto si possa ripetere. O, magari, si sta già ripetendo e non lo sappiamo.
