Di Camilla Tettoni
Ho, da sempre, un forte interesse per la letteratura sudamericana. È un interesse partito da bambina, da quando la storia della gabbianella e del gatto che le insegnò a volare del grande Luis Sepulveda mi avvolse nella magnetica sensibilità del racconto. Da allora, quando posso, leggo letteratura sudamericana. Forse è solo una mia impressione, ma trovo che i testi degli autori sudamericani siano caratterizzati da una verve ironica, tenera, vera. La verità non viene mai omessa, viene narrata in modo che chi la legge non può confondersi, quello che è scritto è accaduto. Eppure, sarà per un vissuto personale degli autori o per i luoghi in cui sono cresciuti, la verità, anche se tragica, viene raccontata in un modo dolce, quasi soave.
Ho letto quasi tutto il compendium allendiano, e non mi stanco mai di continuare. Le sue storie mi intrigano moltissimo, sempre per lo stesso motivo. Alla letteratura si unisce, in un legame imprescindibile, la storia. Anzi, la Storia. E ciò che rende i suoi racconti unici è il fatto che la Storia raccontata non è quella tramandata dai libri di scuola. Solitamente è la Storia degli sconfitti, in questo caso non riscritta dai vincitori. Una Storia vissuta e raccontata in prima persona da chi ha perso, talvolta tutto.
La storia personale di Isabel Allende, poi, è altrettanto interessante: nata in Perù, è cresciuta in Cile con la madre. Dopo aver completato gli studi a Santiago del Cile, ha inizialmente lavorato per la FAO e successivamente si è dedicata al giornalismo impegnato, contribuendo anche a scritti per cinema e televisione. Nipote di Salvador Allende, ha vissuto in esilio dal 1973, anno del golpe organizzato dal generale Augusto Pinochet Ugarte (di cui parla nel romanzo “Lungo petalo di mare”), fino al 1988, anno della caduta di Pinochet. Durante il suo periodo di esilio, ha scritto il suo primo romanzo, “La casa degli spiriti” (1982), che è stato successivamente adattato per il cinema nel 1993.
Recentemente, ho letto due romanzi di Isabel Allende. Il primo è il meraviglioso “Inès dell’anima mia”, basato sulla storia dell’eroina spagnola conquistadora del Cile – dimenticata dai più, per la scrittura del romanzo l’autrice ha dovuto consultare tantissime opere, in cui di Inès si tratta pochissimo, e i dettagli che ha ottenuto li ha scavati per rimbalzo dai meriti ottenuti (secondo le fonti, senza alcun aiuto) dal compagno di Inès, il capitano Pedro de Valdivia. In questo romanzo, viene raccontata la storia degli spagnoli colonizzatori, senza dimenticare gli indigeni sconfitti e la loro fiera lotta per l’indipendenza. Un libro mozzafiato, in cui viene riconosciuta l’importanza di Inès come leader delle truppe e degli animi spagnoli alla conquista del Cile.
Il secondo è l’ultimo romanzo scritto e pubblicato dall’autrice peruviana, “Il vento conosce il mio nome”. Inutile dire che sono rimasta stregata dalle prime pagine, e che ho terminato il libro nel giro di poche ore. “Il vento conosce il mio nome” è un romanzo ambientato tra passato e presente. Parte nella Vienna del 1938, arriva a El Mozote – nell’America centrale – degli anni ’80, e prosegue fino ai giorni nostri, negli anni del covid, nell’America del Nord, tra l’Arizona e la California. Una storia che parla di massacri, di immigrazione, di ingiustizie, di rinascite. Un libro che tratta di stragi dimenticate, e ricollega le vittime del nazismo alle vittime della burocrazia americana, non sempre accorsa in aiuto dei migranti provenienti dal sud America. I protagonisti sono tanti: in primis troviamo il giovanissimo Samuel Adler, di cui seguiamo i tristi e noti avvenimenti generati dal solo fatto di essere ebreo nel corso della Seconda Guerra Mondiale, e le vicende che coinvolgono la sua famiglia. Poi incontriamo Leticia, originaria di El Salvador e costretta suo malgrado ad intraprendere una lunga e tormentata avventura (leggi:cammino) con il padre; Anita Diaz e la madre Marisol, che tentano di raggiungere l’Arizona dal Messico per fuggire le attenzioni di un uomo violento; Selena Duran, assistente sociale, che cerca quotidianamente di ricongiungere i bambini separati dalle famiglie al confine. Nell’ultimo romanzo della Allende il passato incontra il presente, in un circolo che non termina mai, ma si ripete all’infinito. Come diceva Hegel, dalla Storia impariamo che non abbiamo imparato dalla Storia, e la Storia continuerà a ricordare solo i vincitori. Chi perde viene dimenticato. Non, però, nei romanzi di Isabel Allende che hanno parlato, parlano, e parleranno sempre di ciò che non “varrebbe la pena” (ma per chi, poi?) rimembrare.
“Il vento conosce il mio nome” è una lezione di Storia, di tragedie che devono essere raccontate e tramandate. Il tutto soffuso nella dolcezza di sottofondo, quella di cui ho parlato all’inizio. Una dolcezza triste, ma onnipresente. Una caramella di conforto per i lettori. Come tutti i romanzi di Isabel Allende, una lettura necessaria. Bisogna solo avere il coraggio di cominciare.
