Di Rachele Mereu
Era primavera, quando il vento arido dell’Afghanistan trascinava note musicali diverse dai canti religiosi a cui ormai tutti erano abituati. Per la prima volta, dopo tanto tempo, l’aria non fu soffocata dal silenzio, diventato opprimente col passare degli anni, ma questo era soltanto il segnale di una scintilla che si accendeva e di cui non si sapeva quanto sarebbe durata: è risaputo, infatti, che se privi la scintilla dell’ossigeno, è impossibile che possa sopravvivere.
In un piccolo paesino, situato nella provincia di Farah, nessuno si sarebbe aspettato di sentire qualcosa di diverso dal silenzio: in fondo quel centro abitato, sperduto oltre le montagne, era lontano dal fare manifestazioni per riprendersi la libertà. E quella musica era proprio quello che nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di suonare perché sarebbe stato come chiedere di morire. Ai margini della cittadella, una testa spuntò da una piccola finestra stranamente aperta. Due occhi cioccolato si affacciarono, scrutando il viale stretto dietro l’abitazione. Lei sapeva che era rischioso, perché se solo l’avessero colta nel fatto le persone sbagliate, non avrebbe avuto scampo. Guardò velocemente le case circostanti, ma nessuno si era sporto. La musica si fece più melodiosa e anche il vento sembrava trattenere il respiro solo per poterle permettere di prendersi la scena. Noor osò spingere lo sguardo ancora più in là e vide un ragazzo, forse sedicenne, seduto su una pietra. Aveva i capelli e gli occhi neri e teneva in mano una cosa che Noor non si sarebbe aspettata di rivedere: un rubab. Gli occhi si illuminarono, mentre osservava le mani del ragazzo suonare dolcemente le corde di quello strumento simile a un liuto. Lo guardò ammaliata, finché il ragazzo non alzò lo sguardo su di lei. Sorrise e continuò a suonare, soddisfatto di avere un suo pubblico. Noor lo studiava dall’alto della sua casa e poco dopo sorrise anche lei.
Le ore passavano e, solo quando il padre rincasò, riuscì a distogliere lo sguardo da lui. Ma appena lo cercò di nuovo con gli occhi, il ragazzo era già scomparso. L’aria divenne di nuovo pesante, mentre la luce negli occhi di Noor sembrava essersi spenta. Si sistemò meglio lo hijab e si diresse verso il padre, che la invitava a partecipare al momento della preghiera. La giornata passò nel silenzio che l’aveva sempre caratterizzata e, solo quando calò il sole, Noor si stese sul materasso duro, ignorando il freddo e concentrandosi sui ricordi di quella musica che l’aveva tanto incantata. Il giorno dopo fu svegliata presto dal padre per recitare la preghiera abituale dell’alba. Quando il padre uscì di casa sperò quasi di risentire quella musica, ma così non fu. Solo dopo qualche ora l’aria fu alleggerita da un motivetto allegro che fece sorridere la ragazza. Corse verso il piccolo buco nel muro che chiamava finestra e ringraziò Allah di non aver permesso a loro di sbarrarla, com’era successo in altre case afghane. Si affacciò, stavolta sporgendo tutto il capo senza paura e vide il ragazzo sulla stessa roccia con il suo rubab. Giorno dopo giorno si ripresentò, sempre con una musica diversa, che non si avvicinava minimamente ai motivi religiosi che di solito ascoltava. Passate un paio di mattinate il ragazzo, durante uno dei suoi spettacoli, smise di suonare e si alzò, in procinto di andarsene prima del solito.
Noor si fece coraggio ed esclamò: “Perché te ne vai?”
“Perché rimani sempre in casa, io vorrei conoscere le persone che mi ascoltano – rispose lui, guardandola dal basso.
“Non potrei uscire senza un mahram” – mugugnò.
“E io non potrei suonare” – replicò il ragazzo.
“Mi dovrei mettere il burqa, è scomodo”– ribatté Noor.
Già era tanto che parlasse e si facesse vedere da un uomo che non era imparentato con lei.
“Stai bene anche così”
“Manca poco al momento della preghiera”, disse Noor, continuando ad accampare scuse.
“Allora sbrigati a venire qui così non faremo aspettare Allah”, rispose tranquillo, “Chi ti impedisce di scendere?”
Lei lo guardò confusa, prima di dire: “Loro, i…” ma fu interrotta.
“Loro non possono decidere per te, non possono toglierti la libertà”, iniziò a risuonare, “Non farti guidare dalla paura.”
Le sue gambe si mossero prima che se ne accorgesse e, anche se i piedi nudi le facevano male per il terreno sassoso, la musica pareva alleviare il suo dolore. E così accadde per le mattine seguenti. Il ragazzo si chiamava Reza. I due iniziarono a conoscersi sempre di più, mentre la musica accompagnava i loro discorsi. La melodia faceva sentire entrambi liberi e a volte sembravano comunicare solo con le note. Noor gli raccontò come sua madre, morta da qualche anno, suonava il rubab prima dell’arrivo dei talebani e la faceva addormentare con componimenti dolci. Tutto finì quando arrivarono loro e distrussero la maggior parte degli strumenti musicali, vietandoli a chi non era autorizzato. La madre morì, andando contro questo divieto e da quel giorno non rivide più un rubab. Reza aveva costruito il suo da solo e, anche se diverso dagli originali, c’era qualcosa che lo rendeva particolare, dal modo in cui pizzicava le corde con facilità, alla melodia che trasmetteva e animava il silenzio. I componimenti li scriveva lui, come se la sua mente non pensasse ad altro per tutto il giorno. Reza non poteva vivere senza la musica, non poteva respirare nel silenzio e per lui contava solo suonare. Nessun divieto gli avrebbe impedito di fare quello che voleva. Un giorno Noor gli chiese da dove veniva, perché ai suoi occhi era ancora il ragazzo misterioso che si era presentato là e aveva eliminato il silenzio.
“Non so di preciso da dove vengo”, disse, mentre passò da una musica dolce a una triste. “E’ un po’ imbarazzante da dire, ma mi fido di te. Io prima ero un bacha-bazi, più precisamente della zona di Kabul”
Noor si pentì subito della sua domanda e si scusò. Lui le sorrise mestamente. I bacha-bazi. Non se lo sarebbe mai aspettato. In quel centro abitato se ne parlava poco, ma tutti conoscevano quel fenomeno. Bambini, portati via dalle proprie famiglie, costretti a indossare abiti femminili e poi abusati da uomini adulti. Reza era riuscito a scappare da qualche anno e aveva imparato a suonare da solo, vivendo la musica come unica forma di libertà e espressione dopo il trauma subito. Per lui la musica non portava alla corruzione morale e non ingannava i giovani come credevano i talebani; era invece l’unica cosa che in quel momento gli faceva toccare la libertà che gli era stata tolta. Dopo quella rivelazione, Noor cominciò ad apprezzare di più tutto quello che suonava. Un giorno Reza le prese la mano e la portò sulle corde: la melodia che uscì, le fece venire brividi liberatori e così imparò a suonare.
Col passare dei giorni Noor si accorse che non erano più solo loro due: dalle finestrelle delle case più lontane si potevano vedere ragazze che li osservavano incuriosite, ma, anche se stimolate, non lasciavano mai la loro abitazione.
Passarono circa due settimane, prima che la bolla di pace in cui si erano ritrovati si infrangesse. Era mattina, e Reza quel giorno si era presentato con una melodia speranzosa e luminosa. Appena sentita la musica, Noor si diresse verso di lui. Reza le prese una mano e cominciarono a suonare insieme. Parlarono, cercando di non disturbare troppo la musica; Noor voleva fargli conoscere suo padre, anche lui ostile al pensiero dei talebani, quando in lontananza si sentì il rumore di un motore. Le ragazze si allontanarono velocemente dalle finestre; in precedenza anche Noor l’avrebbe fatto, ma il rumore del motore non riusciva a sovrastare quello della musica e, per la prima volta, non le trasmetteva paura. Anche Reza sembrò accorgersene, però rimase tranquillo e riuscì a nascondere bene la tristezza nei suoi occhi. Il motore si era fermato, mentre si sentivano dei passi venire nella loro direzione. Entrambi sapevano a chi appartenevano, però la paura non vinse e la musica li cullava. Reza si alzò e, ancora suonando, condusse Noor verso il foro nel muro che era la porta.
“Noor, ti affido il mio rubab. Lo devi custodire, promettimelo”, erano sulla soglia, quando glielo mise tra le mani.
“No aspetta, puoi nasconderti in casa con me”, replicò lei.
“Loro vogliono un colpevole per questa musica, ma voglio che almeno il rubab si salvi”, rispose Reza “non farti guidare dalla paura; la musica sarà sempre con te.”
Le diede un bacio sulla fronte, prima di spingerla dentro e correre alla pietra che lo aveva ospitato fino a quel momento. Noor lo stava per seguire, però improvvisamente comparve suo padre. La tirò dentro e, senza fare domande, coprì il rubab con una coperta. Noor si sedette nel pavimento, suo padre la teneva stretta mentre dei passi superavano la loro casa. Si sentì qualche parola scambiata, ma solo una le rimase in testa.
“Or!“, gridò una voce roca. E poi solo spari.
Noor si mise una mano sulla bocca e attutì i singhiozzi. Suo padre la consolò e la strinse più forte quando i talebani passarono affianco. Il rumore del motore si allontanò e, in un secondo, Noor si era liberata dalla stretta del padre ed era corsa verso la roccia. Il corpo di Reza steso a terra le fece cedere le ginocchia. Pianse, fino a che non le fecero male gli occhi.
Nei giorni seguenti il padre la aiutò a seppellirlo, mentre Noor gli raccontava la loro storia. Pregò Allah per Reza e non toccò più il suo rubab. Solo dopo una settimana, grazie alle parole di Reza, riuscì a brandire lo strumento, cercando di essere il più delicata possibile. Decise che avrebbe fatto assaporare a tutti la libertà della musica, in suo onore. Passò molto tempo, prima che riuscisse a convincere famiglie, soprattutto ragazze, ad accompagnarla e a unirsi alla sua causa. Così, si ritrovò ad abbandonare la sua casa insieme al padre, e la pietra che racchiudeva tanti ricordi, con la promessa di tornare e alleggerire l’aria con la musica, proprio come aveva fatto Reza.
