Recensione di “Stop Making Sense” e analisi della masterclass di Viggo Mortensen
Di Camilla Tettoni
La quarta giornata della Festa del Cinema di Roma è stata colma di incontri. Oltre ai due citati nel titolo, l’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone ha ospitato il red carpet del film The Return, di Uberto Pasolini, con nel cast – tra gli altri – Juliette Binoche, Ralph Fiennes e Claudio Santamaria. Vedere i grandi del cinema in prima persona provoca sempre un certo effetto. Domani, poi, lunedì 21, andrò a vedere l’anteprima stampa proprio di The Return, quindi aspettatevi una recensione dettagliata al riguardo tra un paio di giorni.

Tornando agli eventi che ho seguito ieri, oggi vi parlerò della masterclass tenuta da Viggo Mortensen in occasione del Premio alla Carriera che la Festa del Cinema di Roma gli ha riconosciuto, e dell’incontro con Jerry Harrison, chitarrista e tastierista dei Talking Heads, che ha introdotto la versione restaurata di Stop Making Sense, documentario classificato al primo posto nella storia della musica. Tra le due parti dell’articolo, trovate il video dell’arrivo di Viggo Mortensen nella sala Sinopoli dell’Auditorium. Subito dopo, la recensione della famosissima trasposizione musicale a cura di Jonathan Demme.
Masterclass di Viggo Mortensen

Viggo Mortensen è un attore candidato al Premio Oscar per la sua interpretazione in numerosi film, come Green Book (2019), Captain Fantastic (2017) e La promessa dell’assassino (2008). L’aver interpretato Aragorn nella trilogia de Il Signore degli Anelli, nei primi anni 2000, lo ha consacrato alla fama internazionale, coronando un percorso iniziato a metà degli anni ’80 e che, dopo quaranta anni, procede in modo florido con all’attivo due film da regista, Falling (2020) e The Dead Don’t Hurt, visto in anteprima stampa venerdì mattina (qui trovate la recensione: https://unastanzatuttaperse.blog/2024/10/19/the-dead-dont-hurt-e-jazzy-due-nuove-anteprime-della-festa-del-cinema/)
Mortensen, intervistato dal giornalista Malcom Pagani, ha parlato della sua formazione, crescita, e passione per il mondo cinematografico. Nato in America da padre danese, il senso di cosmopolitismo lo ha accompagnato nell’America Latina (per anni ha vissuto in Argentina), ritornando poi nella natìa New York a soli undici anni, in seguito al divorzio dei genitori, con la madre e i due fratelli più piccoli. Un cosmopolitismo a cui si accompagna un plurilinguismo: Mortensen saluta il pubblico in italiano, si dichiara spiacente di non saper parlare l’italiano velocemente, ma ascolta le domande di Pagani senza bisogno di traduzione. Un plurilinguismo che lo ha aiutato ad avvicinarsi al mondo del cinema tramite registi internazionali, come anche il nostrano Ettore Scola. Una passione che è diventata lavoro dopo anni vissuti a vendere fiori, fare il barista, lavorare nel porto di Copenaghen e in una fabbrica.
Questa esperienza lavorativa lo ha aiutato a vedere il mondo del cinema come un luogo lavorativo in cui ognuno merita rispetto, e in cui gli attori che non sanno comportarsi per via delle manie di protagonismo devono essere messi da parte. Un senso di rispetto e di compassione che lo accompagnano nella vita di tutti i giorni, rivela, e nel suo lavoro come regista. Un’attenzione al benestare di tutti, ma anche agli innumerevoli dettagli della pellicola. Tutto deve essere contestualizzato, la musica deve essere profondamente radicata nella storia, così come i costumi e la fotografia. Un’attenzione definita da Pagani come maniacale, a cui Viggo risponde con serenità e un bel mottetto: è un regista severo, che non accetta telefonini e sigarette sul set. La preparazione di un film è una faccenda seria, tanto per un regista quanto per un attore. Pagani ricorda come Viggo si prepari per i ruoli che deve interpretare immergendosi totalmente nella parte: quando ha interpretato Aragorn, ha dormito per diverse notti fuori, al freddo, e ha imparato ad usare una spada per entrare nella mentalità del personaggio e non farlo risultare eccessivamente fittizio.
Tale perfezionismo lo ha portato, poi, ad aprire una casa editrice, la Perceval Press, in cui è editor, oltre che selezionatore delle opere prime. “Fare un buon libro”, ha dichiarato, “è un lavoro artigianale, come fare il regista. Per questo sono sempre in sala di montaggio.” Ha rivelato di aver visto The Dead Don’t Hurt moltissime volte. Sia in fase di montaggio, sia in durante i vari festival cinematografici e le presentazioni in sala. Aver realizzato un film western lo rende molto orgoglioso: la prima pellicola che ricorda di aver visto, a soli quattro anni, è stato Lawrence d’Arabia, e da lì è nata una forte passione per i cammelli, per i cavalli, e per il mondo deserto dei pistoleri.
Nonostante l’essere andato a vedere il suo ultimo film moltissime volte, “each room, the space and the people, change the movie each time”. Ogni spazio cinematografico, e le persone che guardano il film, rendono la pellicola di volta in volta diversa. I sussurri, gli sguardi, le attenzioni, le opinioni rendono l’opera una res soggettiva e volta a subire metamorfosi di volta in volta, a seconda di chi l’ascolta. Una delle bellezze del mondo del cinema, secondo me, risiede proprio nel guardare la stessa pellicola e avere due opinioni differenti, o aver notato un particolare che un’altra persona magari non ha osservato. Il cinema è letteratura, bellezza, cultura, arte e creatività trasmessa sul grande schermo, come luce nel buio. Viva la cinefilia, e viva chi la stimola in modo dignitoso e intelligente, come Viggo Mortensen!
“Stop Making Sense” + incontro con Jerry Harrison

Stop Making Sense è la trasposizione cinematografica di un concerto della rock band americana dei Talking Heads, diretta da Jonathan Demme nel 1984. La versione trasmessa nella giornata di ieri al Teatro Olimpico di Roma è l’adattamento restaurato di tale documentario, in sala l’11, 12 e 13 novembre prossimi.
Il film include anche alcune canzoni soliste del cantante del gruppo, David Byrne, e una breve parte di repertorio del Tom Tom Club, band parallela creata dal batterista Chris Frantz e dalla bassista Tina Weymouth. Il documentario include un sum up di quattro concerti, eseguiti dai Talking Heads tra il 13 e il 16 dicembre 1983 in un teatro di Los Angeles.
La meraviglia della pellicola sta interamente nella musica, nella performance dal vivo, nel meccanismo teatrale che dà forma allo stage man mano. In occasione dei quarant’anni dall’uscita del film, ne è stato proposto un restauro, per fornire una migliore qualità dei fotogrammi e un miglior effetto sonoro. Stop Making Sense è stato poi presentato, nella sua versione restaurata, al Toronto Film Festival, in cui il regista Spike Lee ha intervistato i quattro membri della band, riunitisi dopo la dissoluzione, avvenuta nel 1991.

Al Rome Film Festival era presente, come anticipato prima, il chitarrista Jerry Harrison, il quale ha fornito un quadro chiaro e interessante agli spettatori presenti in sala insieme a James Mockoski, il restauratore del documentario. Mockoski ha affermato che la qualità audio è notevolmente migliorata grazie al nuovo mix multicanale, che permette un’esperienza immersiva. L’audio ora “circonda” lo spettatore, creando un coinvolgimento acustico che va oltre il semplice suono frontale, come accadeva nella versione precedente. Questo miglioramento consente di cogliere dettagli sonori che, in passato, non era possibile percepire.
Jerry Harrison ha sottolineato anche la struttura narrativa che si sviluppa attraverso le canzoni, con l’aggiunta progressiva di strumenti e musicisti sul palco, fino a creare una musica sempre più piena e avvolgente. Il cantante David Byrne, oltre a eseguire brani della band, voleva che il film diventasse una sorta di “testamento visivo”, concependo il palco a vista e mostrando anche il lavoro dietro le quinte, con una cura speciale per l’aspetto teatrale dello show. Tale scenografia era nata dall’influenza del teatro giapponese, che la band conosceva e ammirava.
Harrison poi continua affermando che l’inclusione del Tom Tom Club e delle coreografie, come la “crab dance” di Tina Weymouth, hanno contribuito a rendere Stop Making Sense un’opera che ha ridefinito il concetto di film concerto, integrando musica, cinema e teatro in un’esperienza unica.
Se volete andare a vedere non solo un documentario, ma anche e soprattutto un concerto di MUSICA, la musica vera, suonata e sentita, composta e arrangiata, con strumenti dal vivo, esibizioni e un suono “da paura”, Stop Making Sense non vi deluderà!

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