Recensione del film “Io sono ancora qui”, candidato agli Oscar 2025

Di Camilla Tettoni

Ammetto che i film che recensisco sul blog sono i film che mi hanno colpita di più. Ne vedo tanti, per tenermi aggiornata, perché il cinema è una grande passione, e apprezzo l’arte in tutte le sue forme. Però non tutte le pellicole riescono a conquistarmi. Solo alcune, ma lo fanno con una tale veemenza che poi, in qualche modo, devo ricambiare il favore. Motivo per cui, oggi, vi racconto un film che mi ha emozionato profondamente. Ho ancora gli occhi lucidi, giorni dopo la visione.

“Io sono ancora qui” è ambientato nel 1970, in Brasile, nell’epoca della dittatura militare (1964-1985). Un periodo dimenticato, in un’osmosi tipica dei luoghi devastati dalle dittature. Più che il bel ricordo che subentra al brutto, credo si tratti di un altro fenomeno, ben più grave: la rimozione forzata, una damnatio memoriae autoimposta dai cittadini dei Paesi in passato – più o meno “presente” –  sottoposti a terribili brutture politiche. È più facile dimenticare piuttosto che accusare, ricordare fa male, e magari, sotto sotto, l’esempio della dittatura a volte non suscita neanche l’odio o il disprezzo che dovrebbe.

Ritornando al film, la dittatura rimane sullo sfondo. Il ritratto è quello di una famiglia felice, spensierata, che ride di cuore e balla al ritmo di musica americana suonata sul 45 giri. Un padre architetto, Rubens, una madre casalinga, Eunice, quattro ragazze e un figlio maschio, Marcelo, allietano gli spettatori con le loro abitudini. Un dicembre vissuto nell’ebbrezza estiva brasiliana, bagni e gelati inframmezzati da feste e cene in buona compagnia. Sotto la superficie, però, la dittatura si sente, e si vede: camion ricolmi di soldati col fucile passano a tutta velocità vicino alla spiaggia; controlli efferati e violenti effettuati a discapito di guidatori che hanno la sola colpa di essere passati in un tunnel poche ore dopo il sequestro di un deputato svizzero; le chiamate che il padre di famiglia talvolta riceve, in cui gli viene annunciato che sta per ricevere un pacco; la figlia più grande che viene mandata a Londra insieme a degli amici di famiglia per evitare che si possa trovare coinvolta in guai con la politica, essendo una dissidente. 

Tutto passa in sordina, l’estate viene vissuta appieno, in un’abitudine controllata, un senso di sottomissione allo status quo, contro cui si può poco, pochissimo, e si impara a vivere una vita che possa dare il minimo fastidio a chi detiene il potere. Tutto viene destabilizzato quando, da un giorno all’altro, degli uomini in borghese entrano forzatamente nella casa di famiglia. Le tende vengono chiuse, e quella luminosità che prima permeava gli ambienti ora è diventata l’oscurità di una tomba, i cui abitanti vedono il proprio padre essere preso e portato via per essere interrogato. Per quale colpa non si sa, e nell’incertezza aspettano, attendono il verdetto, che per un paio di giorni non arriva, finché poi anche la madre e la sorella più grande, Eliana, vengono prelevate da casa per essere interrogate. In un viaggio che termina in un cappuccio indossato a forza, una cella di reclusione, la divisione delle due donne, che domandano del padre, del marito, che non vedono perché: “è su, è su”. Domande fatte tutti i giorni, interrogatori che non smettono e che avvengono in un lasso di tempo non misurabile, con la luce del giorno che non è in grado di far misurare alle prigioniere l’andamento delle giornate. 

La grandissima prova attoriale di Fernanda Torres, vincitrice del Golden Globe per la sua performance e attualmente candidata al Premio Oscar come Miglior Attrice, è evidente fin dalle prime scene, ma qui spicca più che mai. In questi terribili momenti inizia il racconto di una donna forte che, caparbiamente, non si fa distruggere, affronta la prigione e, in seguito, lotta per capire dove si trovi il marito. Una storia di amore, dolore, sorrisi, rivincita. Da qui in poi, se vi raccontassi come vanno le cose vi racconterei praticamente tutto, e non so a voi, a me non piace leggere una recensione per sapere per filo e per segno quello che accadrà in una pellicola. Stesso motivo per cui a volte tento di evitare di guardare i trailer per intero: talvolta raccontano proprio tutto, e a quel punto che senso ha vedere un film? Sarebbe lo stesso per un libro, che senso avrebbe sfogliare le sue pagine se si conoscesse la fine? 

Ci sono alcune scuole di pensiero, secondo cui anche il viaggio è importante, e concordo. Ma un conto è un viaggio in treno, un conto è un viaggio nella vita di altri, e quello è un percorso personalissimo, che lascio a voi. Quello che voglio scrivere, e ci tengo tantissimo, è quello che il film mi ha lasciato. 

Sicuramente, una consapevolezza della Storia del Brasile che non conoscevo. Allo stesso tempo, un calore meraviglioso proveniente dalla popolazione brasiliana, resiliente, tenace, felice. Come dicevo all’inizio, il film mi ha emozionata moltissimo. Raramente singhiozzo in una sala cinematografica, o mi commuovo mentre scrivo una recensione, ma in questo caso mi è impossibile evitarlo: la bellezza, per assurdo, della trama muove davvero il cuore. È come assistere ad un’ingiustizia, e non poter fare nulla, ma rimanere estasiati da quello che si vede. Dal coraggio e dalla paura soppressa, dalla determinazione di una donna e della sua famiglia. Sapere, poi, che la storia raccontata è vera, scritta qualche anno dopo da Marcelo Rubens Paiva, l’unico figlio maschio della famiglia, riempie l’animo un po’ di più. Siamo soliti lodare gli eroi, i vincitori, i salvatori. Ce ne sono tantissimi, però, che non ricordiamo. Novelli Ulisse che non hanno trovato la strada di casa, e con loro tutte le famiglie distrutte che hanno mantenuto l’unità nonostante tutto, e nonostante tutto continuano a raccontare e a ricordare il trauma più grande. Un trauma che riguarda tutti, una Storia che va conosciuta e va ricordata, sia per chi non c’è più sia per chi c’è, e ha lottato fino alla fine. 

“Io sono ancora qui” è un documentario in forma di poesia, è un realismo che scorre come i dettagli di un dipinto. È un grido alla vita, e un invito a svegliarsi dal torpore. È più facile vivere comodi, o lottare per la propria libertà e democrazia? 

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