Analisi Critica di “Eddington” e “It Was Just an Accident” – 20° Festa del Cinema di Roma

Di Camilla Tettoni

Tra i film più discussi dell’ultima stagione cinematografica, Eddington e It Was Just an Accident rappresentano due modi opposti, eppure complementari, di raccontare la politica e il potere attraverso il linguaggio del cinema. Entrambi arrivati da Cannes, con It Was Just an Accident vincitore della Palma d’Oro e Eddington salutato da un applauso convinto della critica, i due film condividono la stessa urgenza: quella di osservare da vicino le crepe dei propri Paesi e riflettere sulla violenza – esplicita o invisibile – che ne attraversa la storia. Ho avuto modo di vederli in anteprima alla 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma.

In Eddington, Ari Aster abbandona i territori dell’horror psicologico per affrontare un orrore reale: quello sociale e politico. Ambientato in una piccola città del New Mexico nel maggio 2020, nel pieno della pandemia e della crisi americana, il film segue lo scontro tra lo sceriffo e il sindaco, simboli di due visioni opposte di una democrazia in disfacimento. La paura, la disinformazione e il rancore diventano i veri protagonisti di una comunità che implode su se stessa, in un crescendo di tensione che mescola dramma civile e allegoria politica. Eddington è un film che parla di collasso: del sistema, del linguaggio, della fiducia. E nel farlo, costruisce un ritratto spietato dell’America contemporanea, dove la democrazia smette di essere protezione e si trasforma in un campo di battaglia.

Il poster di Eddington

Molto diversa, ma altrettanto radicale, è l’operazione di Jafar Panahi in It Was Just an Accident. Qui la violenza non è mostrata, ma evocata; non è presente, ma ricordata. In un camioncino, un gruppo di ex prigionieri politici si confronta con l’uomo che sospetta essere stato il loro torturatore. L’azione si svolge in un’azione densa, dove ogni parola pesa come una sentenza, e ogni gesto riporta a un passato mai del tutto superato. Panahi trasforma questo incontro in una parabola sul potere, sulla memoria e sulla possibilità – o impossibilità – di perdonare. L’Iran che emerge dal film è un luogo assolutamente antidemocratico, sospeso tra paura e dignità, dove la giustizia non è istituzione ma gesto umano, fragile e necessario.

Il poster di It Was Just An Accident

Se Eddington racconta la violenza mentre accade, It Was Just an Accident la fa riaffiorare come fantasma. Il primo mette in scena la crisi di una democrazia che implode; il secondo, la sopravvivenza di un’autorità che non smette di opprimere i cittadini. In uno, il potere si autodistrugge; nell’altro, si perpetua nel silenzio. Eppure, entrambi i film arrivano allo stesso punto: la politica, quando perde il contatto con la realtà delle persone, diventa violenza. Aster e Panahi ne mostrano due volti diversi – quello caotico e spettacolare del disordine americano, implementato dalla pandemia, e quello intimo e sommesso della repressione iraniana – ma la radice è la stessa: l’assenza di empatia e il fallimento del dialogo..

Entrambi i film si reggono su una scrittura originale e su una visione autoriale fortissima. Eddington è corale, teso, visivamente denso; Aster orchestra una moltitudine di personaggi e voci che riflettono un Paese diviso e allo stremo. It Was Just an Accident, invece, è costruito per sottrazione: Panahi concentra l’intero racconto in uno spazio ben definito (anche temporalmente, avviene tutto nel corso di una giornata), lasciando che siano la memoria e i silenzi a parlare. Due linguaggi diversi, ma una stessa tensione etica: quella di un cinema che interroga, più che rassicurare.

Se Eddington e It Was Just an Accident condividono l’urgenza di interrogare l’attualità, la loro prospettiva politica non potrebbe essere più diversa. Ari Aster racconta il collasso interno di una democrazia: la violenza che esplode in Eddington nasce dal disordine, dal conflitto di opinioni e dall’incapacità di convivere con la complessità. È il fallimento di un sistema che, pur fondato sulla libertà, non riesce più a sostenerla. Il problema, nel film, parte dai cittadini stessi – liberi di protestare, di opporsi, di ribellarsi all’autorità. Ma questa libertà, invece di generare dialogo, finisce per alimentare il caos e la sfiducia, fino a minare le basi della convivenza. In Eddington, dunque, il pericolo nasce dall’interno della democrazia: dal suo eccesso, dalla sua fragilità strutturale.
Jafar Panahi, invece, filma un’altra forma di violenza – quella sistemica, istituzionalizzata, che non deriva dal caos ma dall’imposizione e dall’autoritarismo. L’Iran che emerge dal suo cinema è un Paese in cui il potere non crolla: opprime, silenzia, punisce. Qui i cittadini non possono protestare né dissentire: chi lo fa, spesso viene imprigionato o torturato, come lo stesso Panahi ha sperimentato nella propria vita. E se Aster guarda una democrazia che implode per troppa libertà, Panahi mostra un regime che resiste negandola. È in questa distanza – tra l’autodistruzione della libertà e la sua totale negazione – che si misura la vera differenza politica e morale tra i due film, e la distanza profonda tra le realtà che raccontano: democratica una, l’America; autoritaria l’altra, l’Iran.

Non sorprende che entrambi siano ora in considerazione per i 98esimi Oscar. Eddington e It Was Just an Accident non sono soltanto due film politici, ma due riflessioni morali sulla fragilità del potere e sull’urgenza di ricordare. Due opere che, ciascuna a modo suo, mostrano come il cinema possa ancora essere un atto di resistenza, un gesto di verità, una forma di coscienza collettiva.

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