Di Camilla Tettoni
Anemone è un film raro e sorprendente, un dialogo a due voci tra un padre e un figlio – Daniel Day-Lewis, l’attore tre volte premio Oscar, e Ronan Day-Lewis, giovane regista e pittore al suo esordio dietro la macchina da presa – co-sceneggiatori dell’opera. Il risultato è un film che mescola arte visiva, introspezione psicologica e riflessione politica, ambientata nel silenzio sospeso del post-conflitto nordirlandese. Presentata alla Festa del Cinema di Roma nella sezione parallela di Alice nella Città, la pellicola uscirà al cinema il 6 novembre, distribuita da Universal Pictures.

La trama, essenziale ma intensa, ruota intorno a Ray (Daniel Day-Lewis), un ex soldato che vive isolato nei boschi, lontano dalla società e dai suoi fantasmi. L’arrivo del fratello Jem (Sean Bean), che gli chiede di occuparsi del figlio in difficoltà, fa riemergere vecchie ferite, sensi di colpa e un confronto con la possibilità – o impossibilità – della redenzione.
È un film lento, volutamente lento. Questa lentezza è il ritmo stesso della vita di Ray, scandito dal respiro della natura e dal dolore trattenuto. Le lunghe panoramiche sulle foreste, sulle acque e sui volti silenziosi costruiscono un’esperienza immersiva, quasi ipnotica. La fotografia, firmata da Ben Fordesman, è un gioiello pittorico: si percepisce la sensibilità artistica di Ronan Day-Lewis, ma anche la mano esperta del direttore della fotografia nel catturare la luce e la consistenza materica dei paesaggi naturali.
Il film esplora temi universali – vergogna e purezza, fede e corruzione, famiglia e collettività – con una prospettiva “male gaze”: una visione maschile del dolore e della guarigione. Ma è proprio in questa specificità che Anemone trova la sua forza, costruendo un linguaggio visivo e temporale tutto suo, tra lente erosioni emotive e rivelazioni dilatate nel tempo. La scena della danza nella baita, per esempio, è uno dei momenti più belli del cinema recente: un gesto minimo che si apre in una catarsi poetica.
Personalmente, ho trovato il film esteticamente bellissimo, anche se non per tutti. Non è un film da consigliare a chi cerca ritmo o intrattenimento: è un’esperienza contemplativa, fatta di silenzi, di pause e di pochi dialoghi. Ma quei monologhi di Daniel Day-Lewis, scritti insieme al figlio, con cui lavora al progetto da anni, sono di un’intensità travolgente.
Anemone ha ricevuto, pochi giorni fa, il premio come Miglior Opera Prima da Alice nella Città. Dopo la visione della proiezione in anteprima all’Auditorium della Conciliazione a Roma, l’incontro con Daniel e Ronan Day-Lewis ha reso tutto ancora più emozionante. Padre e figlio hanno raccontato il lungo lavoro di scrittura, durato anni, e la decisione di Daniel di tornare al cinema dopo un silenzio di otto anni. Quando gli è stato chiesto a quale dei registi con cui ha lavorato (da Anderson a Scorsese) somigliasse di più il figlio, Daniel ha risposto con semplicità:
“Assomiglia proprio a se stesso.”
Una risposta che sintetizza perfettamente lo spirito del film: un’opera autonoma, intima e poetica, che parla di ferite e di riconciliazione senza cercare consenso o spettacolo. Anemone è un film da vivere più che da guardare – e, per chi avrà la pazienza di lasciarsi trasportare dal suo ritmo, un’esperienza che rimarrà a lungo nella memoria.
