Camelia: un racconto

Di Camilla Tettoni

Le frasi che si dicono si dimenticano, o cambiano nel tempo. I ricordi assumono forme diverse a seconda delle parole che teniamo con noi e man mano che passano gli anni diventano fantasie che non siamo certi di aver vissuto. Mi ricordo tante conversazioni, ma pochi dettagli. Oggi è una giornata grigia, le gocce entrano dalla finestra che ho lasciato socchiusa. Corro a richiuderla. Mi fermo a guardare la pioggia, mi piace osservarla. Noto due ragazzi che si affrettano sulla via. Incappottati, sorridenti e ignari di ciò che li aspetta, dei boccioli ingenui. Mi immagino la loro conversazione, mi piace perdermi tra i miei pensieri. Torno al mio presente, guardo la tisana calda che stringo in mano. Un tiepido ricordo si è fatto avanti, ma non riesco a raccogliere i pezzi. Ricordo la pioggia, un cappotto che mi scalda. Un giardino, no, un viale. Delle strutture bianche, moderne. Parlo con qualcuno, ma non ho memoria di cosa dico. Osservo il cielo grigio con più intensità: cerco un dettaglio nel diluvio che sta inondando i poveri passanti. Ma non mi viene in mente nulla. Riguardo per strada: alcuni bambini saltano nelle pozzanghere, mentre i genitori tentano disperatamente di non farli sporcare troppo. Delle anziane si riparano sotto un portico. Cos’hanno in mano? Una collana e un libro. No, una croce. Certo, oggi è domenica! Tutti si affrettano a tornare a casa per pranzo. Poso la tazza nel lavandino, mi siedo e tiro fuori le carte per giocare a un solitario.

Un altro ricordo. Risate, urla, battiti di mani. Gioia, felicità, giovinezza. Nient’altro: non riesco a rimembrare i volti, né i discorsi. Non va bene, non mi era mai successo prima. Se mi ricordo bene. Ma mi ricordo bene? Mi sembra di no, non riesco ad essere certa di niente. Mi alzo, mi sto agitando. Faccio due passi per casa. Perfetto, è tutto molto ordinato, sono contenta. Accendo la radio, parte una canzone a me nota. La canto. Mi commuovo, penso a dove staranno le persone con cui ballavo questo pezzo. Mi muovo a tempo di musica e chiudo gli occhi: cerco di tornare indietro col pensiero, con l’immaginazione. Rivedo la stanza, il tavolo, il muro bianco. Vedo uno sguardo blu.

Riapro gli occhi, mi metto a sedere. Non va bene, devo scrivere per cercare di ricordarmi e non scordarmi più. Scrivo parole di getto, emozioni di quei giorni lontani che mi hanno riempito il cuore. Scrivo delle esperienze, delle gite, della quotidianità. Passa un periodo di tempo indefinito, non mi rendo conto di nulla. Voglio solo dare un senso ai ricordi sfocati avuti poche ore prima. Senza che me ne accorgessi, compare un nome a me un tempo molto caro. Come ho fatto a dimenticarlo? È la prima persona che mi abbia capita davvero, che è andata oltre i sorrisi per cercare la verità.

Chiudo il quaderno e mi riempio un bicchiere di vino. Suona il citofono. Salgono su tre giovani e cinque bambini. Sono contenta, mi sento piena d’amore ma ancora una volta non riesco a dare un nome a quei volti. Eppure, li amo più di me stessa. Avverto che qualcosa non va. Mi fanno sedere. I bambini più piccoli giocano per terra, il più grande siede vicino agli adulti. Mi dicono che non posso più vivere da sola, che devo avere una badante. Cerco di oppormi, divento irascibile. Mamma, mi dicono, mamma. Vedi che non hai preparato la cena? mi dicono. È da qualche settimana che ti teniamo d’occhio, non puoi vivere da sola. Fatti aiutare, non essere testarda come al tuo solito. Li guardo con un misto di stupore e incredulità. Mi trattengo dal mostrarmi sorpresa, ma faccio notare che sono troppo giovane per essere la loro madre. Mostro il quaderno, dico di leggere, ché quello che è scritto è successo pochi anni prima. Il ragazzo più giovane mi chiede come si chiama. Come mi chiamo, mamma? Lo guardo, non rispondo. Hai mangiato oggi? Guardo i bambini che giocano. Chiedo, meravigliata, se sono i miei nipoti. Mia figlia mi risponde di sì, commossa. Gli altri due si fanno forza a vicenda con delle pacche sulle spalle, lo vedo. Il bambino seduto sul divano sta leggendo il quadernino scritto da me poco prima. Rimane seduto anche quando i miei figli (sono davvero miei?) vanno in cucina. Dicono che mia figlia più piccola arriverà tra poco. Sorrido e li lascio andare. Guardo fuori dalla finestra: piove ancora. Mio nipote si avvicina, mi dice come si chiama. Lo osservo, mi si riempie il cuore. Ho portato con me quella persona, allora. Mi abbraccia forte, mi dice che mi vuole bene, che gli dispiace che non mi vogliano più far vivere da sola. Tieni nonna, ho preso questo fiore per te. Mi porge una camelia bianca. Me la stringo al petto, e gli prometto che non mi dimenticherò più di lui.

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